A Roma, presso l’aeroporto militare di Centocelle, sede del Comando Operativo di vertice Interforze (COI), si è tenuta la cerimonia di cambio del comandante tra il generale di corpo d’armata Marco Bertolini ed il comandante subentrante, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone.
La cerimonia è stata presieduta dal capo di stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, presenti le più alte cariche civili e militari.
Il generale Marco Bertolini, giunto alla guida del COI nel febbraio 2012, in questa veste ha coordinato e diretto una serie di impegnativi eventi connessi alle principali crisi internazionali.
Nel suo saluto di commiato il generale Bertolini ha menzionato la sua esperienza in ambito interforze, quale primo Comandante del Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, ma soprattutto i suoi 4 anni al COI sottolineando: “abbiamo trasformato radicalmente questo Comando per adeguarlo al nuovo ritmo operativo e incalzante e siamo certi che questa trasformazione consegni alla Difesa e all’Italia uno strumento di Comando e Controllo interforze vero”.
Concludendo il suo intervento ha aggiunto “sono sempre stato più che appagato della mia scelta di vita. Sono in debito con le Forze Armate e con la mia Forza Armata l’Esercito, capaci di riempire la mia vita come nessun’altra istituzione avrebbe potuto fare”.
Particolarmente significativo era stato l’intervento del generale Marco Bertolini in occasione del workshop dal titolo “L’evoluzione del peacekeeping. Il ruolo dell’Italia“, che si era tenuto a fine aprile al Centro Alti Studi per la Difesa (CASD).
A seguire il discorso integrale:
“Innanzitutto vorrei fare alcune considerazioni di carattere generale in merito al tema assegnatomi, le Operazioni di Peace Keeping (PK) per poi soffermarmi più specificatamente sulle Regole di Ingaggio (ROE – Rules of Engagement).
PK e ROE, sono infatti tra i pochi termini militari adottati senza remore e senza esitazione alcuna da parte dell’opinione pubblica anche a costo di alcune semplificazioni che rischiano di falsarne il significato.
Più corretto sarebbe, se proprio si vuole citare la Pace, parlare infatti di Peace Support Operations (PSO) che il Peace Keeping includono come una delle possibili opzioni, assieme ad un’ampia casistica di altre possibilità, tra cui le cosiddette Peace Enforcing Operations, di carattere decisamente più “cinetico”.
Un motivo del grande successo di tale termine è dovuto all’interpretazione nazionale dell’evoluzione storica degli ultimi decenni; all’illusione secondo la quale la guerra sarebbe ormai il retaggio di un passato scomparso per sempre.
Da qui a pensare che il ruolo delle Forze Armate del futuro sia limitato soprattutto a tali casistiche operative (PK, appunto), come se la loro funzione fosse solo la difesa di una specie di pace universale (per chi?) e non di specifici interessi nazionali, poco ne passa.
Ma se diamo un’occhiata alla realtà “vera”, non potremo che constatare che le operazioni di Peace Keeping (da to keep, mantenere) hanno bisogno di una pace in atto, da preservare, e sono solo una minoranza nel contesto più generale delle operazioni militari del dopoguerra.
In effetti, questa discrasia tra realtà vera e realtà percepita è dovuta, soprattutto in Italia, all’origine di tali missioni fuori area del dopoguerra con l’Operazione in Libano del 1981 che del PK è stata un po’ l’antesignana e quella che ha fatto scuola. Era, quella, effettivamente un’operazione di pura interposizione, nella quale alle unità militari era riservato un ruolo in un certo senso notarile di controllo del rispetto degli accordi di pace o di tregua tra le parti in guerra (allora, Libano ed Israele).
A questa natura “pacificatrice” del Contingente si doveva, ad esempio, la scelta di rivestire i nostri mezzi militari di una candida livrea bianca, assolutamente impossibile da mimetizzare nell’ambiente. L’attività delle nostre unità, infatti, doveva essere assolutamente palese e doveva rifuggire ogni tentativo di occultamento tipica del contesto bellico “normale”.
La realtà si è poi rivelata diversa e più complessa, com’è stato confermato successivamente in Irak agli inizi degli anni ’90, in Kosovo nel 1999 e in Libia nel 2011 dove l’Italia ha partecipato a campagne aeree contro Stati sovrani, per favorire secessioni (Kosovo) o ribaltamenti istituzionali, sempre in nome della pace.
Volendo esemplificare con un caso “terrestre” come per l’Afghanistan, che rappresenta il nostro maggiore impegno operativo di questi ultimi decenni, non sussiste alcun trattato tra Governo di Kabul e Talebani in cui l’Italia e la Comunità Internazionale siano chiamate a operare in un ruolo “terzo”, di interposizione, per verificarne il rispetto da parte di tutti.
Al contrario, in Afghanistan l’Italia è al fianco del governo afghano “contro” i talebani, ed i soldati non si devono evidenziare nell’ambiente con elmetti e mezzi bianchi, certi della protezione garantita comunque da un trattato da tutti accettato, ma al contrario devono potersi confondere nel paesaggio con le tradizionali tute mimetiche da combattimento, visto che rappresentano un obiettivo per una delle due parti.
In Afghanistan, come precedentemente in Iraq e, con riferimento alle operazioni aeree, in Kosovo e Libia, le unità militari devono quindi dimostrarsi prima di tutto in grado di prodursi nel loro “gesto atletico” più tipico, il “combattimento” contro chi si oppone alla loro azione, o a quella dei loro alleati.
Insomma, non è più una norma di legge riconosciuta da tutti a fornirci protezione e a consentirci di assolvere il compito, ma è la forza fisica che siamo in grado di esercitare.
Resta il fatto che l’enfasi attribuita nei decenni a tale casistica di operazioni ha rischiato e rischia di far dimenticare capacità operative delle Forze Armate che sarebbe illogico e antistorico abbandonare, visto quello che sta accadendo nello spicchio di mondo a noi più prossimo.
Gioca un suo ruolo nell’affermarsi di tale malinteso una specie di mitologia della fine della storia, impostasi dopo il 2° confitto mondiale, secondo la quale il progresso e la democrazia (considerata addirittura un bene assoluto da esportare) avrebbero fatto dell’Occidente una sorta di paradiso terrestre in cui tecnologia, benessere e pace sarebbero stati alla portata di tutti.
Si tratta di una fine della storia tutt’altro che escatologica, quindi collocata nell’Aldilà come precedentemente voluto dalla nostra tradizione cattolica, ma calvinista e materialista da ottenere nell’Aldiquà grazie soprattutto alla democrazia, forma statuale capace di dirimere pacificamente tutti i contrasti.
Ovvio che in un tale “paradiso”, nel quale la Guerra sarebbe stata addirittura abolita e non semplicemente ripudiata con un semplice tratto di penna, di Forze Armate “classiche” non se ne dovrebbe sentire un particolare bisogno, almeno in Italia.
Vediamo oggi che non è così.
Insomma, non c’è dubbio che il Peace Keeping rappresenta una categoria operativa militare assolutamente minoritaria tra quelle messe in opera tutti i giorni, anche da parte di Forze Armate espressione di Paesi democratici ed occidentali assolutamente “evoluti”.
Venendo all’altro argomento in trattazione, le Regole di Ingaggio (ROE – Rules Of Engagement), si tratta di un termine molto usato ed abusato, non solo tra i non addetti ai lavori, sul quale è bene fare un po’ di chiarezza.
Si tratta, in un certo senso, di un frutto delle nuove sensibilità occidentali che cercavano qualcosa di più stringente ed essenziale delle semplici norme del Diritto Internazionale dei Conflitti Armati.
Peraltro, non si tratta di norme finalizzate ad abrogare ed a sostituirsi a tale Diritto Internazionale, ma che tendono semplicemente ad integrarlo e renderlo più facilmente fruibile, definendo norme di comportamento nei minimi atti tattici, fin nei comportamenti dei singoli militari (che una volta era ritenuto normale e giusto definire “combattenti”).
Sotto il profilo pratico è bene notare che tutte le Organizzazioni internazionali (NATO, ONU, UE) sono dotate di proprie Liste di ROE “predisposte”, valide per tutti i tipi di operazioni, dalle quali trarre le singole ROE da impiegare per una singola operazione specifica.
Se, per esempio, l’Organizzazione X deve predisporre un intervento nel Paese Y, trarrà dalla sua lista predisposta le ROE che meglio si attagliano al caso specifico; le sottoporrà poi ai Paesi interessati che le approveranno o meno sulla base di specifiche normative nazionali.
In Italia, ad esempio, l’approvazione ultima delle ROE risale all’autorità politica (Ministro della Difesa), mentre per altri Paesi è di competenza prettamente tecnico-militare.
Una volta che è stato trovato un “minimo comun denominatore” tra i vari membri della Coalizione, questa nuova Lista di ROE viene approvata dall’Alleanza che lascia comunque ai singoli Paesi la possibilità di porre limitati “caveat” per specifiche esigenze di carattere nazionale.
Quello dei caveat è un istituto che in molte occasioni si è trasformato in un abuso, sottraendo al Comandante dell’Operazione Multinazionale la possibilità di impiegare le forze per le proprie esigenze e sulla base delle loro potenzialità.
Un caveat che, ad esempio, ha causato molte limitazioni al Comandante dell’Operazione ISAF in Afghanistan è quello geografico che limitava (e limita) l’impiego delle nostre unità, ma non solo, ad alcune regioni del paese.
Così facendo, infatti, si viene a ridurre in misura sostanziale la possibilità di esercitare la “gravitazione” delle forze, che è una delle più tipiche attribuzioni di ogni Comandante, per far fronte al mutare delle situazioni tattiche impiegando in maniera opportuna le unità disponibili.
L’applicazione delle ROE si presta ad alcuni problemi e può innescare alcuni malintesi.
Intanto, c’è da dire che non sempre i Paesi che ospitano le operazioni (le cosiddette Host Nations – HN) accettano senza remore le ROE che sono state definite dall’Alleanza di turno, spesso senza sentirli e sulla base di proprie esclusive esigenze operative, caratteristiche per lo più dell’inizio delle operazioni, quando le esigenze di carattere puramente tattico hanno maggiore incidenza.
Se un’Alleanza, ad esempio, decide di autorizzare perquisizioni notturne nelle abitazioni private nelle prime fasi dell’operazione, ciò potrebbe non essere pacificamente accettato dall’Host Nations (HN) nel prosieguo della stessa anche semplicemente per questioni di carattere culturale, innescando contrasti che nel medio-lungo periodo possono diventare di difficile soluzione.
Il comportamento delle unità in tali contesti, si pensi al caso di perquisizioni in case con presenza di donne o mediante l’uso di cani, è stato infatti molto frequentemente al centro di contrasti e frizioni con il paese ospite (Afghanistan ed Iraq soprattutto), nonché motivo di “incidenti diplomatici” difficili da disinnescare.
Le ROE, in sostanza, forniscono una specie di tutela all’unità militare nei confronti dei livelli gerarchici sovraordinati, che possono tramite di esse controllare l’adeguatezza del comportamento delle unità sul campo secondo i propri criteri, ma non necessariamente nei confronti del Paese ospite.
In particolare, questa situazione di sospetto si è innescata in Iraq dopo i fatti di Abu Graib, che hanno spinto il Paese mediorientale di oggi ad essere molto prudente e restio a conferire un’ampia libertà d’azione alle truppe ospiti, anche se impiegate in un conflitto difficile come quello contro ISIS.
In ogni caso, deve essere chiaro che le ROE non vincolano il diritto all’autodifesa, che deve essere sempre assicurato al militare ed all’unità.
In particolare, viene sempre riconosciuta al singolo combattente ed al singolo Comandante (sempre nei limiti previsti dal Diritto Internazionale Bellico) ampia libertà di giudizio nel valutare, ad esempio, la pericolosità di una situazione. Ma in questo caso entrano in gioco le sensibilità dei singoli paesi e, per quel che riguarda l’Italia come vedremo oltre, la rilevanza che negli stessi ha la giurisdizione ordinaria nel giudicare situazioni straordinarie come quelle in esame.
Si consideri ad esempio quanto avvenuto nel corso dell’evento che si concluse con la tragica uccisione del Dott. Calipari nel corso della liberazione della giornalista Sgrena a Baghdad.
In quell’occasione, si susseguirono dotte disquisizioni sui media in Italia sulla velocità della macchina che si stava avvicinando al posto di blocco dal quale partirono i colpi, utilizzando i filmati resi disponibili, nel tentativo di capire se il militare US avesse o meno rispettato la ROE in questione.
La velocità del mezzo e la pericolosità dello stesso sono infatti ovviamente connessi direttamente e nel caso specifico all’intensità della prima erano collegati diversi livelli di reazione “autorizzata”.
Quello che non si capì, o non si volle capire in quella circostanza, è che in quel contesto a meno di palesi inadempienze il giudizio del soldato sul campo valeva molto di più di una ricostruzione fatta a posteriori, magari in un’aula di tribunale o nella studio di un talk show, come confermato da una prassi che soprattutto in ambito anglosassone trova sempre sistematica conferma.
Per concludere, un’ultima osservazione: ciclicamente, ogni qual volta un nostro militare perde la vita in operazioni, scatta sui media la polemica sull’adeguatezza delle Regole di Ingaggio in vigore, nell’intesa che esse non siano sufficienti a garantire la sicurezza del nostro personale.
In realtà, e come già visto, si tratta di un falso problema non verificandosi mai il caso che una ROE impedisca al singolo soldato, o al suo Comandante, di impiegare gli strumenti di cui è dotato (armi) per la propria sicurezza, spesso anche a carattere preventivo.
Il vero problema, a ben vedere, a questo proposito non riguarda quasi mai le ROE, quanto piuttosto la co-azione tra il Codice Penale Militare (di Pace o di Guerra, poco cambia) ed il Codice Ordinario.
Quest’ultimo, infatti, non è in grado di riconoscere l’eccezionalità della situazione “bellica” nella quale operano i militari, ponendo quindi frequenti ostacoli alla loro indispensabile libertà d’azione.
Ad esempio, in caso di attacco contro una nostra unità, ai sensi della Legge ordinaria scatta il reato di “(tentato) omicidio” contro un generico “pastore errante per l’Asia” (che non sarà mai individuato) con tutte le conseguenza del caso, tra cui la segretazione degli atti e dei reperti a cura delle “normali” forze di polizia.
Tale procedura, dovuta alla pervicace volontà di non riconoscere la natura “di combattimento” dell’evento, innesca difficoltà operative di grande rilevanza, tra cui l’impossibilità di comunicare agli alleati i dettagli del fatto nell’immediatezza dello stesso, per metterli in condizione di fronteggiare analoghe azioni, o il sequestro del mezzo colpito che viene così detratto dalle risorse disponibili per continuare la missione.
Analogamente, questa volontà di applicare la logica giudiziaria alle operazioni militari, come se la parte avversa fosse un “colpevole” al quale chiedere conto dei suoi atti contro di noi e non semplicemente una minaccia da eliminare o da rendere inoffensiva, la si riscontra anche, ai danni dei nostri Comandanti, nella routine operativa nei precarissimi apprestamenti campali nei quali si opera, o addirittura nelle attività sul campo.
Faccio riferimento alla pericolosissima tendenza ad applicare una sorta di ridicola “anti-infortunistica operativa” alle nostre attività, nell’ingenua o ipocrita illusione che la sicurezza sia messa a rischio dalla negligenza di un improbabile “datore di lavoro” militare o dall’imprudenza dell’operatore stesso e non, come invece accade, dalla volontà, dall’intelligenza e dal coraggio di chi si oppone alla nostra azione.
I danni di quest’approccio paradossale si riflettono, in pace, soprattutto in campo addestrativo, dimenticando e facendo dimenticare che l’addestramento consiste proprio nel “cercarsi le rogne”, per essere in grado ad affrontarle in operazioni, quando si presenteranno”.