– di Tindaro Gatani –
L’arte della dissimulazione
La parola «broglio», derivata da «brolo» (gallico broga = campo / latino brogilus di origine celtica = orto o giardino annesso alla casa), oggi tanto in uso per indicare soprattutto illeciti elettorali, trae la sua origine da un’usanza tutta veneziana di trattare le faccende politiche e l’amministrazione della cosa pubblica. La sua codificazione è contenuta in Il nobile veneto, edito presso Muschio a Venezia nel 1623. Il trattato, che contiene «le sagge massime predicate dalla pedagogia del Seicento», è opera di Don Antonino Collurafi (Librizzi 1585 — Palermo 1655) che, giunto in Laguna dalla natia Sicilia, fu chiamato a insegnare ai figli della nobiltà della Serenissima Repubblica, annotando tra i suoi allievi anche i fratelli Giovanni, Vittorio, Marco e Giacomo Donato (Donà), Pietro Michiel, Vittore Contarini, Ferrante Pallavicino, Alvise da Mosto, e il poi celebre Giovan Francesco Loredano, che come egli stesso ricorderà «succhiò il latte de’ primi elementi delle scienze sotto l’erudita disciplina del Cavalier Collurafi». Più che un’opera pedagogica, Il nobile veneto è un concentrato generico di capacità e virtù, che avrebbero dovuto essere il bagaglio culturale dei rampolli dell’aristocrazia veneziana. Più che maestro, egli è interprete genuino di quella aristocrazia già in avanzato stato di decadenza. Egli mette la sua penna e la sua opera al servizio di quelli che più che discepoli considerava suoi padroni. In un periodo in cui a Venezia l’educazione andava facendosi sempre «più falsa e speciosa», il Collurafi cerca di dimostrare, nella sua opera, come alla perfetta istruzione della nobiltà veneta, in confronto della quale tutte le altre sono «il punto nella linea, l’unità nei numeri», siano necessari la conoscenza delle lingue, la consuetudine dei viaggi, lo studio della matematica e quello delle leggi della Repubblica, la conoscenza degli ordini e dei modi della disciplina militare. Senza dimenticare tuttavia che l’uomo politico più che con le armi deve difendersi con le parole. E avendo la Repubblica bisogno più di oratori che di poeti, il Collurafi esorta allora i giovani nobili veneti a non farsi tentare troppo dalla poesia, poiché, per il bene dello Stato, è più lodevole anteporre a essa l’eloquenza. Per il bene della Serenissima Repubblica, secondo il maestro di Librizzi, al nobile veneto erano necessarie anche la «virtù», la «prudenza», la «giustizia», la «fortezza», la «temperanza». Qualità tutte che erano allora accompagnate, come ci ricorda Pompeo Molmenti, in Storia di Venezia nella vita privata, dall’arte della «dissimulazione», per cui «presso alle porte del Palazzo, nel broglio [giardino o cortile alberato], coloro che avevano supplicato e non avevano ottenuto grazie e favori, erano accolti con amplessi, baci e condoglianze da quegli stessi patrizi, che nell’aula del Consiglio quelle grazie e quei favori avevano negato». Ecco allora il nostro Collurafi, preoccupato di scrivere quello che i patrizi volevano leggere, dare ai giovani nobili veneti ammaestramenti sull’arte del broglio e della dissimulazione ovvero sull’arte di superare le difficoltà che s’incontrano nel praticare ed esercitare i magistrati.
La prassi del broglio
Non appena indossata la toga patrizia, il giovane nobile, secondo Don Antonio Collurafi, deve «cattivarsi il senso e gli animi degli uomini», acquistandosi la benevolenza dei colleghi e delle famiglie degli altri nobili. Nell’ambire i magistrati, non ecceda, comunque, nelle promesse e nelle sollecitazioni, ma, pur mostrando una duttile capacità di adesione alla molteplicità degli umori e dei caratteri, «nei suoi brogli… con moderatezza prometta, non giuri: accarezzi, non lusinghi: si trattenga, non si getti: si spieghi, non s’imbratti: in somma si tenga nel mezzo e fugga gli estremi» (Il nobile veneto, p. 209). Cerchi comunque il nobile di procurarsi sempre gli onori più con il proprio merito che con i conviti, più con la virtù che con il denaro. La prassi tutta veneziana del broglio, che «non altro che all’arte dell’uccellar par si rassomigli dove mille varietà di reti e panie bisognano», va scrupolosamente rispettata. (Il nobile veneto, p. 190). «Fare broglio» a Venezia significa «fare pratica, ristringersi cogli amici. Da broglio, luogo o orto chiuso. Così a Venezia, all’uso della Repubblica Romana, Broglio s’intende il luogo pubblico dove la nobiltà suole adunarsi insieme per trattare l’un l’altro i propri negozi e chiedere i magistrati». Questa la definizione data nel suo monumentale Dizionario della lingua italiana da Nicolò Tommaseo, che si premura a precisare ancora che «nell’antica Venezia tenevasi l’àmbito dei magistrati nelle piazze, che tuttavia diconsi Campi, che erano già con alberi (e segnatamente nel Campo dove è ora la chiesa e già il monastero di S. Zaccaria); da Brolo, voce viva nel Veneto, venne Broglio, nome non disonorevole, come l’àmbito dei Romani». Comunque, con il passare del tempo, broglio andò sempre più significando per estensione «maneggio per ottenere qualcosa», e, sicuramente «derivato dai disordini che seguono ai maneggi degli ambiziosi», assunse prima il significato di «moto pubblico e di confusione» (Tommaseo), e infine quello di «uso di mezzi illeciti, o comunque sleali, per conseguire un interesse personale o un fine particolare, e soprattutto per ottenere voti in elezioni politiche e amministrative» (E. De Felice – A. Duro, Dizionario della lingua e delle civiltà contemporanea), e quindi «maneggio illecito per ottenere cariche pubbliche» (F. Palazzi, Novissimo dizionario della lingua italiana). Anche se non sappiamo da quando la parola broglio cominciò ad assumere il significato «disonorevole» della sua più moderna accezione, è sicuro comunque che la «malattia del broglio» nella Repubblica Veneta ha guastato tanti animi sin dai tempi più lontani. Non sempre infatti, il nobile veneto possedeva quella «purità interna d’animo», che gli attribuiva il Collurafi, né tanto meno «quella virtuosa qualità» che lo doveva portare a «concorrere col voto a quel Magistrato dove egli più per servizio pubblico che per interesse privato aspira».
La lobby o «manovra di corridoio»
Né tutti avevano quella «modestia e piacevolezza» che «si richiede a chi desidera per grazia non a forza un Magistrato conseguire». Né sempre le loro parole erano «gravi non severe, dolci non affettate, graziose non puerili, affettuose e urbane non licenziose e prodighe» (Il nobile veneto, p. 207), come pretendeva il maestro di Librizzi. Per fare dei nobili veneti «savi» e «ottimi» cittadini, il Collurafi insegnava loro a osservare i precetti, a imitare gli esempi e a «premere i vestigi» dei grandi del passato. «Acciò possi agevolmente le difficoltà superare, che nel praticare o esercitare i Magistrati s’incontrano», il nobile veneto, secondo il dettame del loro maestro siciliano, non solo «da questi savi, e ottimi cittadini» dovvae prendere l’esempio, ma doveva soprattutto «scolpire» nel suo petto «quelle parole» dell’ultimo volume delle Lettere di don Angelo Grillo: «Che per aver testa da Repubblica, bisogna avere stomaco da struzzo» (Il nobile veneto, p. 233). «Ben dici, maestro Grillo – nota Antonio Pilot a commento di questa opera del Collurafi – i nostri uomini politici seguono oggi, quasi tutti, questa aurea sentenza!» (A. Pilot, Ammaestramenti sul Broglio a quattro nobili veneti del 600, in «Fanfulla della Domenica», anno XXXI, n. 41, Roma 10 ottobre 1909, p. 3). In origine il «broglio» veneziano di cui ci parla Don Antonino Collurafi da Librizzi aveva il significato che oggi ha la parola inglese «lobby», che indica «corridoio, atrio, vestibolo» e, negli U.S.A., per antonomasia, il corridoio per il pubblico al Congresso (Camera dei Deputati) ed al Senato. Con il passare del tempo, «lobby» cominciò a indicare, per estensione, il gruppo o i gruppi organizzati di persone che, con le loro «manovre» appunto «di corridoio», sono in grado di influenzare le decisioni del governo e delle amministrazioni statali. Così c’è una lobby dei petrolieri, una lobby araba, una lobby italo-americana, ecc. Invece che nel «broletto», come gli antichi veneziani, gli americani di una lobby attendono oggi i loro politici, soprattutto prima di prendere importanti decisioni, nei corridoi del loro Parlamento. Oltre a quella che cura i propri interessi a danno di altri, ci può essere anche una lobby che agisce a fin di bene, per fare ad esempio passare una legge per il bene collettivo o delle classi più disagiate, ecc. Così oggi, in tutto il mondo, si costituisce una lobby, per fondare una università, per favorire l’organizzazione di gare sportive, ecc. Più vicina al nostro moderno broglio è tuttavia la «lobbying», che deriva sempre da lobby, ma ha il significato di «esercitare pressioni politiche» e di «far manovre di corridoio» al limite del ricatto per favorire i propri interessi. Ma c’è anche, sempre in senso negativo, una «lobbying» commerciale alla ricerca di clienti con campagne pubblicitarie fuorvianti e ingannevoli e quindi con «concorrenza sleale».
A Venezia, Collurafi scrisse tante altre opere per servire la Serenissima Repubblica. Ritornato in Sicilia, fu nominato storiografo di quel vicereame, ed in quella veste scrisse Le tumultuazioni della plebe di Palermo (1651), una dettagliata ricostruzione dei fatti che avevano sconvolto la Sicilia nel 1647.
Questa, che è la sua opera più importante, «pur improntata da faziosità antipopolare», resta una versione completa di quegli sussulti capeggiati da Giuseppe Alessi. Tra gli storici del Seicento quasi tutti parziali, venali e servili, Don Antonino Collurafi non poteva essere un’eccezione: fu figlio del suo secolo, fu uomo del suo tempo.