(di Anthony Brown) – La società araba in genere ha sperimentato profondi cambiamenti nell’ultimo periodo. Ma questo nuovo consenso non è accettato da alcuni Stati o da determinati movimenti politici. Si tratta, pertanto, di un “consenso imperfetto”, precario e limitato nella sua portata. Questa limitazione si manifesta nella persistenza del carattere autoritario dei regimi politici. La politica siriana, in particolare, è debitrice del processo di costruzione degli Stati a partire dall’eredità coloniale, essendosi prodotta una rivoluzione dall’alto che si è incarnata più nella formazione di settori dirigenti burocratici e autoritari che in un autentico processo d’integrazione sociale globale. Frange intere della società furono abbandonate alla loro sorte.
Dall’alto la democratizzazione ha rappresentato una via non democratica, di esclusione sociale e di scissione, che si è convertiva in humus per l’integralismo islamico. La conseguenza di questa dinamica storica è un elevato grado di conflittualità sociale che si evidenziano lungo linee settarie.
In Siria, ci troviamo di fronte ad un deficit democratico rilevante. Il gap democratico si esprime nel Paese con un alto grado di corruzione, con l’esercizio autoritario del potere, l’esclusione della società dalla vita politica, con la frode elettorale e altre dinamiche del sistema politico, che fanno di questa regione un sistema instabile, sempre sulla difensiva, precisamente per la sua precaria legittimità popolare. Il regime non dimostra una volontà di cambiamento nel senso di democratizzare le regole del gioco politico e del pluralismo politico, quali espressioni del pluralismo sociale e del rispetto dei diritti umani.
La mancanza di legittimità ha come prima causa il malessere di grandi masse della popolazione, che dal 26 gennaio dell’anno scorso, con l’azione dimostrativa di Hasan Ali Akleh che si diede fuoco, conducono atti di protesta volti a destituire il Presidente non solo per l’autoritarismo del regime, ma anche per la sua inefficienza nel promuovere trasformazioni economiche e sociali a beneficio di un maggiore numero di persone.
Le dimostrazioni si intensificarono per approdare alla costituzione dell’Esercito di Liberazione della Siria che, l’11 luglio 2011, ufficialmente dichiarava l’avvio della sua attività apolitica e non settaria volta alla destituzione del Presidente.
Durante i recenti scontri con il regime si sono affacciati con forza anche i rappresentanti di quell’islamismo violento e radicale tanto temuto dai Paesi Occidentali.
La sua entrata nel sistema statale, e perfino la possibilità che partecipi al potere politico, potrebbe essere la migliore via per contenere la radicalizzazione dell’islam, di quell’islamismo che proclama la scomparsa dell’idea laica dello Stato e che ha i mezzi per destabilizzare il Paese.
Recentemente, si è insistentemente pensato ad una possibile svolta politica rappresentata dalla concessione dell’immunità all’attuale Presidente e che potrebbe godere di un esilio a differenza dei destituiti leader egiziano e libico e in analogia con le recenti scelte accorte del Presidente yemenita Abdullah Saleh, che, tra le altre cose, vive ancora nel suo Paese influenzandone la politica, malgrado le ricorrenti richieste popolari per un suo processo.
E’ vero la proposta di un cambiamento nella politica siriana raggiunto con un uso molto limitato della forza e, soprattutto, poco costoso per un Occidente in profonda crisi finanziaria si è guadagnato subito il favore di molti osservatori, ma tale modello non è di facile applicazione in Siria, in quanto, non dobbiamo dimenticare che in Yemen l’allontanamento dell’autoritario leader politico yemenita ha scatenato gli appetiti delle forze più radicali, rispettivamente sciite nel nord del Paese e sunnite nel Sud.
In Yemen una vera e propria guerra viene condotta dalle forze di sicurezza per contrastare militanti legati ad al-Qaeda causando una media di 15 vittime al giorno dal 26 marzo, giorno in cui Abed Rabbo Mansour Hadi, il nuovo presidente yemenita, si è recato a Riyadh per colloqui con re Abdullah Abdul Aziz. Tali operazioni, peraltro, sono sostenute, in maniera determinante, dalle azioni mirate condotte dagli Stati Uniti a mezzo degli aerei senza pilota che il 30 marzo iniziavano una offensiva, attaccando una fortezza di Al-Qaeda nella provincia di Shabwah, nel sud del paese, causando la morte di almeno 7 armati e molti feriti, per proseguire ininterrottamente fino a ieri quando i droni americani hanno svolto diversi raid contro Al-Qaeda nel territorio, causando 10 morti e diversi feriti.
Una guerra di siffatte proporzioni alle porte dell’Iran sarebbe più difficile da immaginare in Siria per le inevitabili ripercussioni sui delicatissimi equilibri che vengono mantenuti nei vicini Israele e Libano. Forse il mantenimento di buona parte dell’attuale Governo rappresenterebbe un buon deterrente perché le forze islamiche più radicali non approfittino del vuoto di potere ma è una soluzione che richiede un po più di quel tempo che le cancellerie occidentali sembrano non avere.
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