(di Clara Salpietro) – “Noi della Osoppo eravamo dei partigiani patrioti. L’ideale per cui combattevo era difendere me e gli altri”. Sono le parole di Cesare Marzona, nome di battaglia “Piero II”, 90 anni, stimato ed affermato notaio, presidente dell’Associazione partigiani Osoppo, sindaco di Valvasone per tre legislature, già vice presidente del Consorzio agrario e già membro del Comitato Triveneto dei notai.
Il presidente Marzona, che gentilmente accetta di farsi intervistare ricevendomi nella sua casa di Valvasone, in provincia di Pordenone, racconta come è nata nel 1943 la Brigata Osoppo, ricorda la triste morte del fratello Gian Carlo, i rapporti con la Brigata Garibaldi e le sue avventure di “partigiano patriota”.
“Nel periodo in cui facevo parte della Brigata Osoppo avevo 20 anni – afferma -, l’età più bella, come dicono i francesi ‘i giorni della gloria’ che non tornano più. Mi sento soddisfatto per quello che ho fatto, non mi sono mai tirato indietro, ho affrontato tutto a viso aperto e non mi pento. Non lo facevo per avere una riconoscenza, facevo solo il mio dovere. Ho sempre mantenuto un comportamento leale e coraggioso”.
Presidente Marzona come è nata la Brigata Osoppo?
La Brigata si formò a casa mia a Treppo Piccolo, lì era il centro operativo guidato da mio fratello, io e don Ascanio De Luca, cappellano militare reduce dalla Russia.
Ai primi di marzo, sei uomini, che erano i fratelli Federico e Ferdinando Tacoli, Cesar e Rico di Farla di Maiano, il Goi (cioè Ranieri Persello, che ci faceva lezione di combattimento) e Giovanin Ferant, sono partiti da casa nostra per raggiungere la malga Palamajor in Val d’Arzino, nella zona del monte Rossa. Subito dopo ai pionieri, si unirono mio fratello Gian Carlo con don Ascanio (nome di battaglia Aurelio) ed un gruppo di ragazzi di Treppo. È iniziata così l’avventura dell’Osoppo detta “della Val d’Arzino” a completamento della prima brigata dell’Osoppo già collocata nelle prealpi cividalesi (Attimis, Nimis e Faedis).
Qualche anno fa, alla malga Palamajor abbiamo collocato una lapide per ricordare la nascita della Osoppo della destra Tagliamento, perché la sinistra era appunto già nata prima, anche se il sito è stato ricostruito perché purtroppo la malga originale dove è nata la Osoppo, era dietro una roccia, è stata bombardata con i mortai.
Io e mio fratello eravamo molto legati con i fratelli Tacoli, figli del generale Paolo Tacoli, mentre la madre proveniva dalla nobile famiglia Rossi di Schio, proprietari di un importante lanificio. Ferdinando è stato ucciso nel luglio del 1944, un mese prima di mio fratello, entrambi erano del 1922. Era uscito di notte in azione per controllare una casa dove si diceva che ci fossero delle armi, era in testa ad una piccola pattuglia ed è stato fatto fuori. Per una serie di avvenimenti, io e Federico eravamo molto legati, è stato presidente dell’Associazione Osoppo prima di me. Aveva una buona memoria e conosceva benissimo le montagne. Il nostro vantaggio nei rastrellamenti era che conoscevamo bene questi monti e sapevamo come e dove spostarci.
Come è morto suo fratello?
Mio fratello Gian Carlo (nome di battaglia Piero) e Delicato Fortunato (il Bologna) giravano dalla Carnia al mare con il loro leggendario furgoncino sgangherato. Compivano azioni temerarie, non conoscevano il rischio. Io andai con loro solo due volte, ma ero troppo prudente per stargli dietro. Il 15 agosto del ‘44 li fermarono a un posto di blocco comandato da un ufficiale della Luftwaffe all’incrocio di Reana scoprendo che portavano con loro delle armi. Li fucilarono sul posto. Mi sembra che fosse la prima volta che nelle nostre zone a un posto di blocco si fucilavano i fermati.
Può raccontare una sua avventura ‘particolare’?
Era il marzo del 1945, avevo vent’anni, ero in possesso di un tesserino falso a mio nome dell’Organizzazione Todt (grande impresa di costruzioni tedesca controllata dall’esercito e che impiegava civili obbligati a prestare il loro lavoro), fornitomi da don Emilio De Roia grazie al rapporto che intesseva con il Marescialle Kitzmuller della SS di Udine, tesserino che presentava tutte le caratteristiche di regolarità. Ad un posto di blocco sono stato fermato da un soldato tedesco, gli ho mostrato il documento e il soldato ha esclamato “questo è buono” (ha detto così perché prima di me avevano fermato e trattenuto 4-5 ragazzi sprovvisti di qualsiasi documento che giustificasse la loro presenza e libertà di circolazione). A quelle parole ho pensato di essere libero, invece è arrivato il comandante della pattuglia di soldati ciclisti che stavano realizzando il posto di blocco e ha preso il tesserino, l’ha guardato più volte e dalla tasca ha tirato fuori un fascio di carte in cui c’erano dei nomi. Io ero ricercato, in quanto erano venuti a casa a cercarmi una decina di volte ma non mi avevano trovato. Di sicuro il mio nome era in quelle carte, perché hanno liberato gli altri ragazzi e portato via me. Una pattuglia di tedeschi, in divisa ed armati, mi ha scortato in caserma in bicicletta, tedeschi davanti e dietro ed io in bicicletta stavo in mezzo a loro. Temevo quelli alle spalle in quanto potevano spararmi facendo il tiro al piccione.
Eravamo a Vendoglio (Treppo Grande) di cui conoscevo le strade come le mie tasche. Bisogna considerare che, come partigiano, avevo avuto alle mie dipendenze il battaglione Montenero che dopo la morte di mio fratello era diventato battaglione Montenero GCM (cioè Gian Carlo Marzona). Le figure importanti all’interno della Osoppo erano il comandante militare e il delegato politico, io ero delegato politico del mio battaglione ed avevo avuto contatti molto vicini con gli altri comandanti tra cui Aurelio, Giovanbattista Caron (Vico), Miro, Giorgio Simonutti e Manlio Cencig “Mario” comandante di tutte le brigate Osoppo dalla prima alla quinta.
Tornando al mio arresto, il mio obiettivo era di staccarmi il più possibile dai tedeschi che stavano dietro e così mi sono messo sul ciglio della strada e non in centro, in salita ho fatto finta di essere stanco e preoccupato della mia sorte e sono andato avanti adagio. Sapevo che alla fine della salita c’era la discesa che ho imboccato aumentando al massimo la velocità e, a metà della discesa, staccati coloro che erano alle mie spalle, mi sono intrufolato a tutta velocità in una stradina di campagna e sono scappato. Sono stato sia fortunato, sia abbastanza furbo. Dopo un po’ mi sono fermato, ho messo giù la bicicletta, ho tolto il cappotto e mi sono messo a correre tra i filari delle viti. Mi sono infilato nel primo cancello che ho trovato aperto, sono entrato in una casa dove ho trovato una scala e grazie a quella sono salito in una stanza adibita a fienile, ho ritirato la scala e mi sono nascosto scavando nel fieno.
In quella casa sono arrivati i tedeschi che però non sono riusciti a trovarmi. Li sentivo camminare sul ballatoio della stanza dove ero nascosto, per fortuna non mi hanno trovato, ma confesso di aver provato cosa vuol dire “terrore”. Ero disarmato. Se mi avessero preso non avrei avuto nessun mezzo per difendermi, potevano fucilarmi sul posto. Non trovandomi ed essendo la zona piena di partigiani, i tedeschi forse hanno pensato che fossi andato a riunirmi con i miei compagni e sono andati via. Dopo un po’ in quella casa è entrato uno dei miei uomini, si chiamava Enore Borgobello, con il nome di battaglia ‘Provino’, e mi ha detto “bravo Cesare, li hai imbrogliati”.
Era il 3 marzo del 1945 ed io associo quella data ad una ricorrenza importante. Quel giorno mio fratello avrebbe compiuto 22 anni, ma purtroppo, come detto, era morto il 15 agosto 1944.
I tedeschi, evidentemente non contenti della mia fuga, nei giorni successivi sono andati a casa mia, hanno circondato la casa anche con mitragliatrici e hanno detto che se non mi costituivo sarebbero tornati ed avrebbero arrestato tutti.
Appena ho saputo di questo episodio, con altri compagni ci siamo diretti a casa Tacoli, che era un posto di rifugio, e per combinazione ho trovato un gruppetto di responsabili della Osoppo. Loro mi hanno suggerito di costituirmi perché non potevo mettere a repentaglio la mia famiglia, visto che già era morto mio fratello. Mi hanno consigliato di andare dall’italiano Odorico Borsatti, tenente a capo di un plotone di volontari italiani e tedeschi della SS, aveva origini istriane, e comandava la piazza di Colloredo di Monte Albano. Borsatti tentava di trovare protezione dalla Osoppo per salvarsi, in quanto era responsabile di svariate uccisioni, violenze su arrestati e sevizie. È stato l’unico fucilato dopo la Liberazione.
Ho seguito il consiglio dei miei compagni e mi sono costituito. Il tenente Borsatti mi ha tenuto circa quattro giorni come ospite in carcere, mi invitava anche a pranzo con gli altri suoi uomini. Dopo quattro giorni, in macchina, anziché lasciarmi libero com’era nella promessa, mi ha portato al comando della SD (Servizio di Sicurezza formato dalle SS) in via Cairoli a Udine. La villa occupata dalla polizia tedesca era la sede dell’archivio notarile e io, come notaio, dopo la Liberazione, vi andavo ogni settimana in quanto avevo le mie carte da consegnare o ritirare.
In via Cairoli, la cella in cui venivo tenuto era molto piccola e vi sono rimasto due notti ed un giorno. Mia sorella veniva a trovarmi, a portarmi da mangiare o libri, a me piaceva la cultura umanistica tedesca.
Dopo via Cairoli, i tedeschi mi portarono nelle carceri di via Spalato a Udine, dove prima di arrivare in cella ho incontrato Tullio Gattolini, un osovano scappato e catturato, insieme a Federico Tacoli e Vittorino Trevisan che erano nella stessa cella. Il nome di battaglia di Gattolini era ‘marmellata’ perché nel corso dei rastrellamenti, quando dovevamo spostare le sedi, tutti i barattoli di marmellata li consegnavamo a lui. Il carcere di via Spalato allora era diviso tra ‘cellulare’ riservato ai prigionieri di lusso e il ‘comune’ riservato ai delinquenti comuni, quelli che commettevano omicidi, rubavano, etc..
Fui portato nella cella di Gattolini, la numero 36 del ‘cellulare’, sistemata come una specie di monolocale di lusso. C’era un tavolo in mezzo, le brande a castello, in un angolo il buiolo e in un altro il fornello a meta. Tutte le sere alle 17 facevamo il tè e venivano a trovarci tutti i personaggi importanti che erano in prigione, tra cui il professor Gino Pieri, primario chirurgo dell’ospedale di Udine, Mangiarotti, il sindaco di Palmanova Frangipane ed altri. Devo confessare che, considerata la situazione, sono stati giorni piacevoli.
Anche nel carcere a Udine non sono mancate le avventure.
Un giorno ci portano alla porta d’ingresso, eravamo circa 40 detenuti, e ci dividono in due gruppi. Io ero nel secondo gruppo in cui c’erano importanti personaggi della Brigata Garibaldi. Abbiamo pensato che saremmo stati trasferiti in Germania ed invece, dopo due ore, il primo gruppo è tornato in carcere, ma purtroppo non abbiamo avuto possibilità di incontralo e quindi eravamo all’oscuro di cosa fosse successo. Federico Tacoli, che era nel primo gruppo, lungo il tragitto che lo riportava in carcere, ha incontrato sua sorella Alessandra e mia sorella, che erano venute a portarci da mangiare, e gli ha detto che ci avevano processati e condannati tutti a morte. Le due ragazze sono andate subito a raccontare tutto all’arcivescovo di Udine monsignor Giuseppe Nogara, il quale ha telefonato immediatamente al Governatore locale dell’Adriatisches Küstenland (la zona del Litorale Adriatico, Friuli compreso, che si trovava sotto diretta amministrazione tedesca) il Gauleiter Friedrich Rainer che riferì che era stata un’iniziativa del capitano Schibler delle SD di cui non era stato informato e quindi diede l’ordine che l’esecuzione della sentenza di condanna a morte venisse sospesa. Purtroppo, però, 24 dei condannati a morte, credo quasi tutti della Garibaldi tranne forse uno che era osovano, sono poi stati fucilate nel cortile del carcere alla liberazione, con atto di estrema inutile ferocia. Dopo la sopsensione della condanna, dal ‘cellulare’ ci hanno spostato nella ‘comune’, uno stanzone con la muffa alle pareti e a terra non c’era nulla. Qui abbiamo vissuto da condannati a morte senza essere fucilati. Le fucilazioni avvenivano per consuetudine all’alba del primo giorno successivo alla condanna. Quindi la prima notte alla ‘comune’ nessuno ha dormito, cercavamo di sentire i camion che dovevano venirci a prendere per portarci sul luogo dell’esecuzione, ma nessuno arrivava. Dopo quattro mattine che non dormivamo pensavamo che ormai non ci avrebbero più fucilato. Era la prima volta che l’esecuzione di una sentenza di morte non veniva eseguita all’alba del primo giorno successivo.
Come è riuscito a uscire indenne dal carcere?
Un giorno ebbi un attacco di appendicite e i miei amici di cella chiamarono il professor Pieri, che era in carcere perché aveva curato dei partigiani, tra cui anche un appartenente alla Osoppo proprio il giorno in cui hanno ucciso mio fratello. Pieri mi ha visitato e ha detto che se i tedeschi non mi ricoveravano in ospedale al più presto mi avrebbe operato utilizzando i coltelli della cucina del carcere. I tedeschi, forse per risparmiar pallottole, forse per volermi giustiziare in perfetta salute, hanno accettato invece che venissi portato in ospedale. Ero così malandato che non sono riuscito a fare i quattro chilometri che separavano il carcere dall’ospedale. Poco prima della metà del percorso mi sono buttato a terra, a quel punto uno dei due tedeschi di scorta mi ha messo su una bicicletta che aveva trovato nei dintorni, e via in ospedale. Due tedeschi mi piantonavano notte e giorno. Dopo qualche giorno, perdurando il coma, hanno capito che non potevo scappare e mi hanno lasciato in pace. Federico Tacoli, invece, riuscì ad uscire dal carcere grazie ad un permesso fasullo.
Quanto tempo è rimasto in ospedale?
Fino a luglio del 1945, a guerra ormai finita. Una notte stavo per morire, perché l’appendicite si era trasformata in peritonite e poi in setticemia. Dopo l’operazione ero tutto nero, stavo anche morendo soffocato in quanto non avevo digerito l’anestesia. Un infermiere che faceva il turno di notte con una pinza mi ha preso la lingua e l’ha tenuta fuori fino a che non ho vomitato e così mi sono salvato. Quando i tedeschi hanno lasciato Udine, sono venuti a cercarmi in ospedale e i medici ed infermieri che sapevano la mia storia mi hanno avvolto intorno al corpo delle fasce lasciando fuori solo occhi e naso e mi hanno trasferito in pediatria. I letti erano così piccoli che non riuscivano a contenermi. Quando sono arrivati i tedeschi in ospedale, i medici hanno mostrato il mio letto vuoto dicendo che ero scappato. Al che loro hanno consegnato le chiavi del carcere dicendo che, appunto, lasciavano la città.
Cosa può dirci del tentativo di accordo che la Brigata Garibaldi voleva fare con la Osoppo?
Tutto è avvenuto durante le famose giornate di Pielungo, quando c’è stato il tentativo da parte della Garibaldi di politicizzare la Osoppo (la quale invece si vantava del suo essere apolitica) ignorando quanto avvenuto nella zona del Piancavallo dove due comandanti saggi, Maso e Tribuno, uno per l’Osoppo e uno per la Garibaldi, avevano stipulato l’accordo noto come Comando Unificato Ippolito Nievo A di montagna e B di pianura. Sottolineo che noi facevamo il nostro dovere per difendere i confini e la Patria in un clima di nuova democrazia e non volevamo assoggettarci a nuovi padroni, tantomeno se schiavi di ideologie dittatoriali. La soluzione politica che si sarebbe attuata dopo la Liberazione, fermi restando i principi democratici allora avversati dai comunisti, in quei momenti non costituiva il nostro scopo principale.
Qual è stata la prima vera azione di guerra della Osoppo?
È stato l’attacco alla caserma della Guardia Nazionale Repubblicana a Tolmezzo dove è morto Renato Del Din (nome di battaglia Anselmo), fratello di Paola Del Din (Renata) partigiana anche lei, nota durante la Resistenza e medaglia d’oro al valor militare.
Qual era la zona che voi controllavate?
La nostra zona di controllo riguardava la ferrovia Pontebbana tra Tarcento, Tricesimo e Pinzano. Lungo questo percorso avevamo diversi punti di riferimento, tra cui il casaro di Moruzzo, un certo Gino, che visitavamo quando scendevamo dalla montagna per accompagnare gli inglesi che venivano inviati in missione per farci avere, attraverso dei lanci, quello che ci occorreva, tra cui anche sigarette. L’unico campo di aviazione per apparecchi di certe dimensioni era Planica, in Jugoslavia, un campo custodito dagli uomini di Tito. Dopo che gli inglesi erano stati da noi, li riportavamo indietro con uno scambio di staffette progressivo fino a consegnarli alle pattuglie dei titini, i quali li portavano al campo di aviazione da dove gli inglesi prendevano il volo per rientrare in patria. Bisognava sapere dove attraversare il Tagliamento, di solito noi lo passavamo ad Aonedis, sotto San Daniele, nel punto dove l’acqua era così bassa che non arrivava al ginocchio. Una sera in una stradina sotto San Daniele abbiamo avuto una brutta imboscata, un nostro uomo è stato ucciso (l’ho recuperato solo la mattina dopo) e due sono rimasti feriti. Poiché sapevano tutto di noi, credo che a fare l’imboscata siano stati i repubblichini italiani.
Cosa è accaduto al Castello di Ceconi a Pielungo?
Il Castello di Ceconi a Pielungo era la sede del comando della Osoppo. Nelle cantine avevamo sette prigionieri tedeschi catturati in uno scontro, che abbiamo lasciato liberi quando sono arrivati nei pressi del Castello altri tedeschi per liberarli. I prigionieri hanno raccontato ai colleghi che sono stati trattati bene e quindi i tedeschi hanno bruciato solo una parte del Castello.
Siete riusciti a mettere paura ai tedeschi?
A Pinzano c’è stato un attacco e siamo riusciti a spaventare i tedeschi. Noi eravamo pochi e male armati, quindi non potevamo affrontare a viso aperto uno dei più grandi e organizzati eserciti del mondo, ma dovevamo solo stuzzicarli, fargli capire che eravamo pronti a fargli male, che eravamo ovunque. Utilizzavamo le famose matite esplosive a tempo che ci venivano fornite dagli alleati. Le mettevamo nei camion dei nemici. Quelle matite erano la denuncia della nostra presenza. Una pressione sulle menti dei nemici.
Ha fatto parte dell’“Organizzazione O” che si è costituita subito dopo la fine della guerra?
Ho avuto buoni rapporti con l’Organizzazione O, ma non ho mai partecipato attivamente.