(di Roberto Falaschi) – Da qualche tempo in Italia si è diffusa in certi ambienti la masochistica teoria della decrescita felice, ove in realtà una decrescita non può che essere infelice.
La felicità spacciata si baserebbe sul concetto della salvazione del pianeta in nome della dea Pangea e sul fatto che si può meglio godere della vita se si è privi di una quantità di beni. Sarà pure, ma al riguardo non si possono avanzare che serissimi dubbi.
Infatti chi vorrebbe rinunciare alla comodità di liberi spostamenti o agli agi di una casa arredata con tutti i comfort che la moderna tecnologia può offrire e a costi moderati se prodotti in quantità industriali.
Una decrescita che prevalentemente colpirebbe l’industria e la ricerca che sono tra i principali motori di quello sviluppo costante che ha portato l’umanità dalle caverne alla situazione di benessere generalizzato che non è un punto di arrivo, ma una situazione di transito verso un divenire.
Sono stati gli avanzamenti tecnologico che hanno portato all’abolizione della schiavitù e ad un benessere che mano a mano si è andato estendendo a gruppi sempre più ampi della popolazione mondiale. Questo trend, se non ostacolato da teorie farlocche o da suicidi progetti di governo mondiale, porterebbe ad avanzamenti i tutti i campi dello scibile con enormi benefici per l’umanità.
Ma il motore del progresso è la concorrenza ed un governo mondiale eliminandola creerebbe una società stagnante con tutti gli aspetti negativi che abbiamo potuto osservare in decenni di comunismo. Questo finalmente è collassato per mancanza di vitalità dando l’unico esempio di sistema politico/economico che implode.
Uno degli aspetti negativi della teoria della decrescita felice è proprio quello di eliminare aspetti competitivi che stimolano la ricerca scientifica e quindi la loro applicazione pratica.
Ma per passare dal generale al singolo veniamo a quanto accade all’Italia ed al suo lentissimo sviluppo che ha conseguentemente portato all’accrescimento abnorme del debito nazionale, che accompagna crescendo tutti i cittadini dalla nascita alla tomba.
Se il debito progressivamente cresce malgrado le ripetute politiche volte, secondo i gestori della cosa pubblica, quanto meno a fermarlo è evidente che la cura non funziona.
Però, anche ad insistenza dell’Unione Europea, le precedenti politiche fallimentari vengono ripetutamente “imposte” ed i nostri governanti ne accettano quasi supinamente i diktat senza far valere la potenza economica della capacità manifatturiera italiana (seconda in ambito UE) e di altre potenzialità nazionali.
Dovrebbe essere evidente che chi gestisce la “cosa europea” non è un neutro amministratore, ma ubbidisce ad interessi internazionali e nazionali dei singoli stati. Ora la domanda che il singolo cittadino dovrebbe porsi è: Cui prodest?
Alcuni stati quali Germania e Francia per arroganza e capacità d’iniziativa traggono vantaggi economici dalla situazione portata avanti dai vari organi europei che di fatto gestiscono. Un solo stato dei ventisette ha le capacità intrinseche per contrastare l’asse franco/germanico ed è l’Italia…se solo lo volesse.
Ma le manca un’agguerrita classe di governanti che non soffra di complessi d’inferiorità nei confronti dello “straniero”. O peggio che non sia attenta agli interessi nazionali. Vediamo qualche errore evitabilissimo. Fino agli anni novanta circa il debito era fortemente interno e quindi di fatto non subiva le pressioni del mercato ed avrebbe potuto continuare a crescere dato l’alto tasso di risparmio delle famiglie italiane. Invece è stato internazionalizzato con le conseguenze che tutti possiamo osservare, a partire dallo spread.
Che dire poi del cambio lira/euro che è stato di 1,937 a uno. Prendiamo il cambio DM (marco tedesco)/euro alla pari e quello della LIT che all’epoca era di circa 964 per 1 DM. Il calcolo del cambio non torna e quell’errore, se di errore si è trattato, ha impoverito tutti gli italiani ed avviato un ciclo negativo dal quale non riusciamo ad uscire.
Ma il permanere in uno stato di crisi non è solamente colpa del cambio, perché la cura dell’opprimente austerità che si applica è esattamente il contrario di quella che dovrebbe essere. Non è indispensabile essere raffinati economisti per comprendere che l’uscita dalla stagnazione economica si ottiene solamente generando lavoro, anche a costo di accrescere il debito che si ripaga nel tempo con i profitti generati…dal lavoro.
E’ così evidente che la domanda da porsi è perché non si procede in tal senso come negli anni trenta l’esperienza USA col presidente Roosevelt (eletto presidente ben quattro volte!) ci insegna.
Oppure come attuato dal coevo ministro tedesco Hjalmar Schacht, che risollevò la situazione economica del paese facendo crescere a dismisura il consenso verso il partito Nazional Socialista Tedesco.
Questi due esempi lampanti, tra i tanti, da soli dovrebbero bastare per far abbandonare la fallimentare politica dell’austerità, invece appena il governo italiano accenna a sforare un 3%, di un rapporto cervelloticamente fissato, ecco l’UE minacciare sanzioni al “bambino cattivo” se non si comporta come deciso da altri e l’Italia si giustifica pure.
Ora la domanda da porsi è il perché sui debiti nazionali e sulla crisi economica si insiste a seguire una cura che si dimostra ogni giorno più fallimentare e testardamente i programmi dell’U.E. prevedono per il futuro di insistere in quella linea di austerità.
L’esempio più evidente dell’errore è l’atrocità commessa nei confronti dei greci che sono stati ridotti in condizioni miserevoli dalle politiche di Bruxelles. Quanto sono stati felici i greci della loro decrescita!!!!
Torniamo all’Italia, nostro Paese e quindi di maggior interesse. Cosa potrebbe essere fatto per anzitutto rallentare e poi fermare la crescita del debito. Apparentemente la risposta sarebbe semplice se quanto necessario venisse eseguito correttamente e senza diatribe interne meramente a fini di vantaggi elettorali per taluni e di danno per tutti. In primo luogo è imperativo eliminare dall’azione qualsiasi ideologia e preconcetto demagogico.
La ricchezza si genera con il lavoro e non con l’umiliante elemosina elettorale. La mano che dà sta sempre sopra a quella che riceve. Le persone vogliono lavoro per sentirsi degne e libere. Il lavoro si genera stimolando e facilitando chi lo genera, quindi riduzione allo strettissimo essenziale degli obblighi burocratici e delle imposte. Che di queste ce ne sia una onnicomprensiva, più bassa possibile e semplice da pagare.
Il mancato gettito sarebbe progressivamente recuperato con la tassazione personale dei lavoratori in aumento e delle imprese sempre più rigogliose. Quindi avviare la costruzione di quelle infrastrutture capaci di procurare occupazione in se e vantaggi che inevitabilmente portano per il fatto di esistere.
Sia la burocrazia di Bruxelles che gli “amici” dell’Unione Europea, nostri alleati, si lancerebbero a fare da maestrini minacciando sanzioni e multe.
Bene, faccia l’Italia con dignità ed orgoglio le bucce ai critici ed esponga le loro “violazioni” che peraltro non hanno portato loro grandi vantaggi dato il ridottissimo sviluppo dimostrato.
Al contempo vengano stimolati a seguire esempio italiano, anziché cercare inutili giustificazioni che per definizione rendono colpevole chi le produce. Al contempo venga loro esposto e dimostrato come la linea italiana rappresenta lo sviluppo collettivo, se adottata.
Sia anche sempre tenuto in evidenza che le normative europee sono il frutto di ripetuti compromessi e quindi fatte male e peggio applicate da burocrati che mirano ad interessi diversificati per stato di origine senza al contempo rispondere a nessun elettore.
Si parla tanto di cambiamento: Bene l’Italia lo faccia, lo faccia da ora e lo faccia a testa alta esponendo le sua buone ragioni ed invitando i partner a seguirne l’esempio. Un capo politico non segue, convince, guarda lontano nel futuro e guida nell’interesse nazionale.