(di Clara Salpietro) – In questi giorni si parla molto di volontariato e volontari e della loro attività all’estero. Voglio raccontare l’esperienza di David, volontario per scelta, volontario perché sente di farlo.
Nato a Bologna, ma romano d’adozione per motivi di lavoro. Sin dal suo arrivo nella Capitale, David una volta a settimana ha messo, fino a quando non è arrivato il lockdown per la pandemia, il proprio tempo e le proprie energie al servizio degli altri. Il sabato sera di solito era normale incontrarlo alla distribuzione pasti per i senza tetto in alcuni punti strategici di Roma, come in prossimità della Stazione Termini.
Essere volontari è quasi come una missione, ci si mette a disposizione dei più deboli, degli umili, senza avere niente in cambio, se non la soddisfazione di aver fatto qualcosa di importante e utile per chi ne ha bisogno. E lo vedi negli occhi di David quando ti racconta la sua esperienza.
Qui voglio raccontare l’attività che David ha svolto per un breve periodo in Kenya. Un’esperienza forte dal punto di vista emotivo e umano, nonostante sia durata solo quasi un mese.
Lo ringrazio per la disponibilità nel rispondere alle mie domande, anche perché è la prima volta che fa conoscere pubblicamente questa sua storia di volontariato.
David, dove hai svolto il volontariato, per quanto tempo e di cosa ti occupavi?
In un piccolo villaggio in Kenya sulle sponde del lago Vittoria, più precisamente nella località di Rusinga Island. Siamo arrivati sul campo l’8 luglio 2018 e tornati a Nairobi il 25 luglio. Le attività in cui eravamo direttamente coinvolti erano prettamente agricole: portare taniche di acqua prese dal lago per l’irrigazione degli alberi da frutto (mango e avocado principalmente), mietere e raccogliere granoturco e simili, eccetera. Oltre a questo cercavamo soprattutto di conoscere le persone del posto e, almeno alcuni di noi, di giocare con i bambini (c’era una scuola vicina). In realtà buona parte del tempo era dedicata a cucinare, direi circa tre ore al giorno (suddivisi per turni).
Cosa ti ha spinto a partire per questo tipo di volontariato?
Avevo voglia di provare qualcosa di nuovo, forse ero un po’ annoiato o deluso dalle solite vacanze e cercavo qualcosa che mi avrebbe lasciato un ricordo anche dopo molto tempo. Inoltre volevo mettermi alla prova.
C’erano altri ragazzi insieme a te? Di che nazionalità?
C’erano due ragazze e un ragazzo di Hong Kong, incredibilmente diversi tra loro. Poi un ragazzo francese, una belga, una spagnola e una olandese (quest’ultima appena diciassettenne). Erano quasi tutti studenti universitari, un paio avevano appena concluso gli studi e avrebbero presto iniziato a lavorare. Ho scoperto che in diversi paesi è cosa comune prendersi un periodo di “stacco” (in alcuni casi addirittura un anno, per chi può permetterselo) dopo la fine dell’università, anche per schiarirsi un po’ le idee per le scelte successive. Evidentemente per la ragazza olandese questo momento era già arrivato in età liceale. La ragazza belga sarebbe partita di lì a poco per la Colombia (se non ricordo male) per scrivere la tesi su una tribù locale. Pare che alcuni belgi, da Lèvi-Strauss in poi, nutrano una sorta di atavica curiosità antropologica, oltre a un certo gusto per l’avventura. Il Congo è stato colonia belga fin dopo la Seconda Guerra Mondiale; fino alla Prima Guerra Mondiale quasi tutta l’Africa era una colonia europea. Oltre a loro c’erano un camp-leader keniota e cinque giovani volontari locali (in buona parte di Nairobi) che ci hanno fatto da guida, essendo già esperti del campo.
Cosa ti ha lasciato quella esperienza?
Me lo sono chiesto diverse volte. La verità è che ho apprezzato l’esperienza in Africa soprattutto dopo che sono tornato, anzi direi soprattutto dopo molto tempo. Appena tornato in Italia, ad esempio, ho apprezzato tantissimo il water e il materasso, che non avevamo nel campo. Soltanto dopo però ho apprezzato il contatto profondo stabilito con la natura del posto (facevamo il bagno nel lago e ci svegliavamo con l’alba), cosa difficilmente concepibile vivendo in città. Inoltre l’idea di tempo era completamente diversa da quella di un europeo medio: tutto si svolgeva con estrema lentezza e, per dire il vero, molto tempo era impiegato non facendo nulla (cosa che ora non sarei forse più in grado di accettare). Infine mi ha molto colpito parlare con i giovani volontari kenioti e anche con i bambini del posto e scoprire che tantissimi sognavano, un giorno, di andarsene dal Kenya e venire in Europa. Sicuramente un ruolo importante a questo proposito l’hanno giocato gli smartphone e l’accesso a internet in generale, da cui mi sembrava che i ragazzi si fossero fatta un’idea della vita in Europa piuttosto distorta e idealizzata. Per quanto suoni retorico, non ho potuto fare a meno di pensare di essere nato dalla parte “giusta” del mondo, alla fine dei conti. Ancora adesso lo penso spesso.
Vorresti ritornare in quell’area come volontario?
In futuro voglio fare un altro campo di volontariato, magari in Africa, ma mi piacerebbe vedere qualche altro posto.
Di quale aiuto concreto hanno bisogno quelle realtà?
Premetto che non conosco bene la storia del Kenya né il suo sistema politico, mi limiterò quindi a quel poco che ho potuto vedere. Innanzitutto ho osservato una grande differenza tra Nairobi e il villaggio di Rusinga (che prenderò come esempio almeno per le aree vicine al lago, non avendo altri riferimenti). Nel secondo caso l’economia è principalmente di sussistenza: pochissime famiglie avevano più possedimenti di quanto strettamente necessario; agricoltura e allevamento intensivi erano assenti; rare le fabbriche. Gran parte degli uomini adulti (diciamo di almeno dodici anni) si occupavano di diverse attività, principalmente agricoltura e pastorizia. Vi erano poi i pescatori, ma anche loro spesso svolgevano mansioni secondarie. Alcuni, soprattutto anziani, erano illetterati. Infine, bisogna ricordare che il Kenya, forse anche in virtù del suo passato di colonia inglese, è dotato di un sistema politico amministrativo migliore di molti altri stati africani (ufficialmente è una repubblica costituzionale democratica) e anche per questo forse non ha sofferto delle medesime sanguinose guerre civili.
Fatte queste premesse, mi limiterò a citare tre fattori critici per il successo e lo sviluppo del paese, senza naturalmente alcuna pretesa di completezza.
– In primo luogo, istruzione superiore di qualità e accessibile. A quanto ho potuto capire soltanto una piccola parte dei giovani può accedere all’istruzione universitaria (quasi preclusa a molti di coloro nati lontano dalle grandi città), e anch’essi spesso non riescono a trovare un lavoro qualificato, oppure, l’Università non li forma adeguatamente.
– Secondo, infrastrutture. Esistono, è vero, linee ferroviarie, soprattutto tra le grandi città e la zona costiera più turistica, tuttavia l’unico modo per muoversi in gran parte delle zone a nord di Nairobi sono polverose strade a corsia singola (ricordo che impiegammo quasi dieci ore a raggiungere il campo da Nairobi). Anche all’interno di Nairobi il traffico è incredibile; il tragitto dal centro alla casa in periferia in cui ho alloggiato per due giorni richiese due ore di autobus, gran parte delle quali eravamo completamente bloccati.
– Infine, microcredito. Molti degli abitanti del villaggio lamentavano l’impossibilità di acquistare macchinari (trattori, pompe per l’irrigazione, ecc) anche a causa del fatto che nessuno gli avrebbe fatto credito. Non può esserci progresso economico senza credito. Onestamente non penso che questo possa essere un business redditizio per un investitore, dal momento che il profilo di rischio di queste persone è decisamente alto e per di più difficilmente stimabile; anche per questo i tassi di interesse sono molto elevati. Occorrono quindi fondi di sviluppo dedicati e opportunamente gestiti, oltre a un minimo di educazione economica (torno quindi al primo punto).
Vuoi aggiungere altro?
Si. Poco più di un mese fa ho ricevuto un messaggio su WhatsApp da Angela, che mi chiedeva se stavo bene, vista la situazione del Coronavirus in Italia. Angela è una delle signore che si occupano del vitto e alloggio dei volontari durante la breve permanenza a Nairobi. Lei aveva già un lavoro full-time, lo faceva un po’ per arrotondare e un po’ per conoscere persone di altri paesi. Aveva viaggiato, anche in Europa. Ho un bel ricordo di lei perché mi accolse in casa sua con calore e mi cucinò per la prima volta gli chapati con le lenticchie, tipici del paese, che mangiammo con le candele perché era saltata la luce.