di Tindaro Gatani
Emilio Angelo Carlo o, meglio, Filippo Achille Emilio Marinetti, a seconda dei documenti che si consultano, poi divenuto famoso come Filippo Tommaso, nacque ad Alessandria d’Egitto, il 22 dicembre 1876, secondogenito di Enrico ed Amalia Grolli. I genitori erano emigrati conviventi more uxorio nella città egiziana, dove, tra il 1861 ed il 1913, si registrò una presenza italiana, che si mantenne sempre stabile intorno alle 12.000 unità. Il padre esercitava la professione di avvocato civilista. Nella locale comunità italiana nacque nel 1888 e visse la sua gioventù anche il poeta Giuseppe Ungaretti, da genitori immigrati da Lucca. Oltre al luogo di nascita, queste due personalità della cultura italiana del Novecento ebbero in comune la formazione. Sia in Egitto, che al loro ritorno in Europa, essi ebbero infatti modo di immergersi nella lingua e nella cultura francese. Ungaretti compì i suoi primi studi alla celebre École Suisse Jacot della città natale. Al loro ritorno, per tutti e due, l’Italia fu solo luogo di passaggio prima di raggiungere, in tempi diversi, anche per differenza di età, Parigi, dove Marinetti conseguì il baccalaureato. Marinetti e Ungaretti furono accomunati anche dalle scelte fatte allo scoppio della Grande guerra, tutti e due, furono ferventi interventisti e partirono quindi volontari per il fronte. Ma erano e saranno tuttavia divisi sul piano artistico: mentre il primo resterà per sempre morbosamente legato al “suo” Futurismo, il secondo cercherà, invece, di ridare «al linguaggio della poesia una sua dimensione essenziale, scabra, talvolta volutamente oscura al fine di restituire alla parola abusata verginità e novità», cercando di fare insomma una poesia che più tardi il critico Francesco Flora chiamerà ermetica. Al contrario dei futuristi, che esaltavano la modernità, l’impeto irruento del fare artistico, la bellezza della velocità e concepivano la poesia come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo; gli ermetici, invece, erano pessimisti sulle possibilità dell’uomo, soffrivano di «male di vivere», e rifiutavano «i moduli espressivi tradizionali», facendo quindi «una precisa scelta etica», che praticamente diede poi origine alle «novità di stile» proprie dell’ermetismo.
Ritornato in Italia sul finire del secolo per proseguire gli studi, prima alla facoltà di legge di Pavia e poi a quella di Genova, dove si laureò nel 1899, Marinetti continuò a mantenere stretti rapporti con Parigi, collaborando all’«Anthologie, revue de France et d’Italie» e a Parigi ed in francese, sul più autorevole giornale della Nazione, Le Figaro, Marinetti pubblicò, il 20 febbraio del 1909, il Manifesto del Futurismo, lasciandosi alle spalle l’esperienza della rivista «Poesia», da lui fondata a Milano nel 1905, pubblicando sull’ultimo numero il poema Uccidiamo il chiaro di luna, che, oltre ad essere un atto d’accusa «all’arcaico sentimentalismo dominante nella poesia italiana», era anche e soprattutto un «vero e proprio inno alla follia creativa». Nel 1910, Marinetti pubblicò il suo romanzo, Mafarka, per il quale egli venne accusato di oltraggio al pudore e quindi assolto. Il 1910, il 27 aprile, fu anche l’anno del lancio del Manifesto contro Venezia, «città putrescente, piaga magnifica di passato», che egli voleva «rianimare e nobilitare», colmando «i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi» e di bruciando «le gondole, poltrone a dondolo per cretini». Dalle rive della Laguna di nuovo a quelle della Senna, da dove, alle prime notizie dell’attacco italiano alla Libia, nel 1911, Marinetti partì come corrispondente del giornale parigino L’intransigeant. Quella fu una delle sue prime occasioni per saggiare la bontà delle sue teorie futuristiche, del suo movimento «anticulturale, antifilosofico, di idee, di intuiti, di istinti, di schiaffi, pugni purificatori e velocizzatori»: elementi tutti che ricorrevano in quella guerra tremenda di conquista, nella quale le truppe italiane si erano mosse per prendere Tripoli, bel suol d’amore… al rombo del cannon!. Tutto lo entusiasma. Sì perché si trattava di quella stessa guerra da lui glorificata «come sola igiene del mondo» (punto 9 del Manifesto). Lo appassionava la corazzata, che avanzava speditamente perché «benigno è il vento e dolce è la stagion» e, si sa, i futuristi erano incantati da «una bellezza nuova: la bellezza della velocità» (punto 4 del Manifesto).
Nelle nefandezze di quella guerra, Marinetti vide dunque una prima affermazione del suo programma, che chiedeva di distruggere «i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria» (punto 10 del Manifesto). Egli giustificava anche l’intransigenza del governo italiano, perché i futuristi erano nati per combattere «la prudenza diplomatica» ed «il neutralismo» e per «esaltare il movimento aggressivo… lo schiaffo ed il pugno» (punto 10 del Manifesto). Nel frattempo avevano aderito al movimento futurista decine di letterati, poeti ed artisti tra cui anche Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Luigi Russolo. In tutta Italia si erano formati circoli e si organizzavano serate con spettacoli teatrali, nei quali i seguaci di Marinetti, che si erano già fatta fama di provocatori, con i loro frizzanti manifesti, facevano a gara nel declamare versi ed aforismi. Nel 1914, Marinetti pubblicò il libro parolibero Zang Tumb tumb Adrianpoli 1912 (Milano 1914), reportage della guerra bulgaro-turca redatto in parole in libertà, una tecnica che aboliva la punteggiatura e annullava la sintassi, ricorrendo ad artifici verbo-abusivi, che non vennero capiti da molti dei suoi stessi disorientati proseliti, alcuni dei quali, tra cui Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, abbandonarono per sempre il movimento. Siamo alla vigilia di quella Grande Guerra che vide l’affermazione dei principi futuristi e dalla quale Marinetti tornò con due medaglie ed in un certo senso toccato dalla Rivoluzione russa. Marinetti, fondava allora i Fasci futuristi, il giornale Roma futurista ed il Partito politico futurista, con l’intento di liberare l’Italia con «violenza travolgente e incendiaria», sia «dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari» che dagli «innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli». Era inevitabile il rischio che, prima o poi, futuristi e fascisti trovassero qualche punto di incontro. L’occasione fu offerta, il 15 aprile 1919, quando a Milano, arditi, fascisti e futuristi si trovarono uniti nell’assedio alla sede del giornale socialista l’Avanti! Un mese prima, esattamente il 23 marzo 1919, Marinetti era stato tra quanti, al Circolo dell’Alleanza Industriale in piazza San Sepolcro a Milano, assistettero alla Nascita del fascismo, come annunciò il giorno seguente Mussolini con un comunicato pubblicato su Il Popolo d’Italia.
Marinetti non fu tuttavia molto attratto dal programma mussoliniano, né dal movimento fascista, da lui accusato «di reazionarietà e passatismo». L’unica rivoluzione possibile e quindi praticabile in Italia restava per lui quella elaborata dal suo «programma politico futurista». Marinetti abbandonò, allora, il fascismo e nonostante le sollecitazioni di Mussolini, che lo ebbe sempre in grande stima, passeranno quasi cinque anni prima di farvi ritorno.
Oltre alla carica di Letterato d’Italia (1929), Marinetti ebbe, allora, dal regime onori e ricompense, che egli ricambiò appoggiando le campagne autarchiche di Mussolini. Come quando in piena campagna del grano, cioè del pane e della pasta che mancavano sulla tavola degli italiani, Marinetti lanciò il suo Manifesto contro la pastasciutta, nel quale, tra l’altro, si legge: «Convinti che nella probabile conflagrazione futura vincerà il popolo più agile, più scattante, noi futuristi… crediamo anzitutto necessaria: l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana». Perché da «questo alimento amidaceo… ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo». La pastasciutta doveva essere insomma bandita perché era pacifista. Questo valeva per gli altri non per lui, che fu, infatti, visto più volte davanti ad un piatto di fumanti maccheroni, onde un anonimo cantò allora: Marinetti dice Basta, / messa al bando sia la pasta. / Poi si scopre Martinetti / Che divora gli spaghetti.
Per la politica autarchica del fascismo sarebbe stato più «patriottico favorire, in sostituzione della pasta, il riso», prodotto nazionale al posto del grano che si doveva in parte importare. Tra gli accostamenti fino a poco tempo prima ritenuti strani nella cucina futurista c’erano: zabaione rosso e cipolla, fragole e cioccolato, zucchero semolato e colla di pesce, bistecca e assenzio, pesce e gelatina di fragole, succo di liquirizia e caffè nero amaro. Il tutto avvolto in una atmosfera di profumi, in una fragranza di «bocconi simultanei e cangianti» di molti sapori, «da gustare in pochi attimi» anche con gli occhi. I futuristi organizzavano aeropranzi, mescevano liquidi nei Quisibeve (sic!) al posto dei meno patriottici bar, il tutto fatto ad arte per suscitare ilarità e buonumore e corredato da carte-menù illustrate da pittori più o meno famosi. Tra i tanti basta ricordare il trentino Fortunato Depero ed il siciliano Renato Guttuso, allora futurista in erba. Marinetti non fu tuttavia succube del fascismo, il suo carattere glielo impediva. Così fu uno dei pochi a prendere posizione critica, anche se timida, contro le leggi antisemite e razziali emanate dal regime nel 1938, non si sa se solo ispirando o redigendo egli stesso alcuni articoli apparsi sulla rivista futurista «Artegrazia».