di Tindaro Gatani
Tra i primi a rispondere all’appello di Francesco Saverio (1506-1552), l’apostolo delle Indie, ad andare a lavorare da operaio nella vigna del Signore ci fu Alessandro Valignano o anche Valignani, nato a Chieti, tra il 15 e il 20 febbraio 1539, figlio del nobile abruzzese Giambattista e di Isabella de’ Sangro, del nobile casato napoletano. Dopo i primi studi nella città natale si recò a Padova, dove si addottorò in diritto e si formò nell’ambiente filosofico locale. Trasferitosi a Roma, nel 1565, entrò in contatto con la Compagnia di Gesù e l’anno seguente era già novizio a Sant’Andrea al Quirinale e, quindi, studente di filosofia al Collegio Romano, dove, terminati gli studi, fu ordinato sacerdote e ricoprì diversi incarichi.
Nel 1571, mentre proseguiva gli studi di approfondimento al Collegio Romano, svolse anche «la funzione di maestro dei novizi, tra i quali quell’anno vi fu Matteo Ricci». L’anno dopo fu mandato a reggere, per un breve periodo, il Collegio di Macerata, da dove, dopo aver manifestato il desiderio di essere mandato missionario in Oriente, fu richiamato a Roma dal generale Everard Mercurian, quarto preposito della Compagnia di Gesù che, nell’agosto del 1573, lo nominò Visitatore generale di tutte le Indie orientali. Già l’8 settembre di quell’anno compiva la professione del quarto voto e il 20 dello stesso mese partiva per Lisbona, dove arrivò dopo tre mesi di viaggio. Il 21 marzo del 1574, con 41 confratelli (24 spagnoli, 10 portoghesi, 7 italiani) salpava per Goa, dove, dopo una sosta in Mozambico, sarebbe giunto il 6 settembre dello stesso anno.
Appena sbarcati in India, i missionari furono decimati da una violenta epidemia e lo stesso Valignano fu gravemente colpito. Scampato il pericolo, iniziò la sua funzione di Visitatore e la sua missione di evangelizzatore. D’allora in poi fu tutta una febbrile attività, si continuò a spostare da un luogo all’altro. Nonostante le difficoltà dei viaggi di allora, fu in diverse parti dell’India, in Malaysia, alle Molucche, a Macao, dove istituì il Collegio dei gesuiti, e, quindi, anche in Giappone, dove fondò una missione, incoraggiando i confratelli che avevano già fatto registrare i primi successi nell’evangelizzazione di quel Paese, con la conversione di molte persone e la fondazione di chiese, collegi e l’ordinazione sacerdotale di indigeni. Dopo Goa, Valignano aveva fatto, dunque, tappa a Macao, dove arrivò per la prima volta il 6 settembre 1578, con il compito di rafforzare la funzione di quella sede ecclesiastica elevata a diocesi con giurisdizione sulla Cina e sul Giappone.
Macao divenne allora la sua centrale operativa per l’evangelizzazione di tutta l’Asia orientale. Valignano si rese subito conto che il primo grande passo era stato già compiuto dai suoi predecessori e che molto di più si poteva fare, rinunciando al «comportamento eurocentrico», che rimproverava ad alcuni confratelli portoghesi, che «condizionava anche il rapporto tra i padri gesuiti e i giapponesi entrati nella Compagnia di Gesù come ‘fratelli’», traendo «la conclusione della necessità di un cambiamento, da un lato elaborando il metodo missionario dell’accommodatio dei religiosi europei agli usi locali, incentivando lo studio della lingua locale come imprescindibile strumento di comunicazione, e dall’altro lato fondando seminari di formazione del clero giapponese».
Valignano imparò bene la lingua giapponese e redasse quindi anche un Cerimoniale per i missionari in Giappone, tenendo conto degli usi e dei costumi e della lingua locali che, pur senza debordare dai dettami della Chiesa di Roma, rendevano possibile l’approccio con le credenze, che da millenni regolavano la vita del Paese del Sol Levante. Quel Cerimoniale, che oggi chiameremo un vero e proprio disciplinare del missionario, era una guida del buon comportamento, frutto di una lunga e attenta osservazione del rispetto del galateo e dei comportamenti locali, della pulizia della persona e del modo di mangiare e di vestire.
Per allontanare ogni sospetto da parte degli orientali e soprattutto dei cinesi, sui valori e sui principi dei gesuiti e, soprattutto, sulla loro neutralità politica, Valignano aveva concepito «un piano che doveva aprire pacificamente la Cina, fino a quel tempo chiusa a qualunque penetrazione occidentale», arrivando alla conclusione che «la Cina, nonostante il suo atteggiamento sospettoso e orgoglioso, si sarebbe lasciata guidare dal suo culto illimitato per lo studio e la conoscenza della sua letteratura classica e avrebbe finito con l’ammettere nelle sue frontiere dei missionari che unissero a una virtù insigne una larga e profonda conoscenza della filosofia e delle lettere cinesi». Era stato facile profeta! Anche per la Cina, egli suggeriva una completa immersione nella vita culturale di quel Paese compresi usi e costumi, parlata, modi di agire, di mangiare di vestire.
Il portatore della parola di Cristo doveva arrivare da amico e non da conquistatore, Valignano si opponeva così a quanti suggerivano di usare gladio e vangelo (la spada e il Vangelo), per convertire i cinesi anche con la forza (Sinarum apostolis manu altera gladium, Evangelium altera praeferendum esse). Padre Valignano voleva evitare che venisse messo in pratica il progetto della conquista militare della Cina da parte dei portoghesi e degli spagnoli, già riuniti sotto la stessa corona di Filippo II d’Asburgo (1527-1598), dal 31 gennaio 1580.
Valignano, seguìto dal suo Ordine, da buon cristiano, si era staccato, dunque, del tutto dal pensare degli europei del suo tempo, che, persa la centralità geografica, cercavano con ogni mezzo di conquistare quella politica con vasti programmi di colonizzazione forzata e l’imposizione al resto del mondo della cultura europea considerandola superiore a tutte le altre. Valignano aveva capito, con anticipo di secoli, che l’universalità della Chiesa era proiettata nel futuro di un mondo nuovo e l’evangelizzazione doveva, dunque, avvenire senza imporre a nessuno nuovi modelli culturali. Era stato tra i primi a capire che le nuove scoperte geografiche avrebbero portato a una grande mobilità, a maggior movimento delle persone, dunque a più migrazioni e più incroci e a più mescolanze di genti anche tra popolazioni di origini diverse. Aveva compreso soprattutto che la cultura europea, libera dalla pretesa di essere superiore, poteva arricchirsi sempre più con gli scambi e gli apporti delle varie altre culture.
Valignano era arrivato, oltre quattro secoli fa, alle stesse conclusioni alle quali la sociologia moderna è giunta solo oggi, cioè che: il futuro del mondo intero è nella mescolanza armoniosa di genti, di esperienze, di culture diverse. A patto, comunque, che ognuno sia cosciente della propria identità e delle proprie radici culturali. Come ha sottolineato anche Sua eccellenza Bruno Forte (Napoli, 1° agosto 1949), arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto, in occasione della presentazione di un volume su Alessandro Valignano, tenutasi nella su città natale, il 16 maggio 2017: «Egli fu non solo un evangelizzatore di straordinaria audacia, ma anche colui che teorizzò e mise in atto nell’annuncio del Vangelo due modalità di cui oggi si apprezza il profondo valore: l’inculturazione e l’interculturalità… In antitesi allo scontro di civiltà, Alessandro Valignano indica come unica via credibile e praticabile quella del dialogo e dell’incontro fra culture e religioni. E questo vale anche per quanti come noi queste culture ed esperienze religiose diverse siamo chiamati a ricevere nel grande flusso immigratorio che sta conoscendo il nostro Paese».
Il metodo Valignano, fatto proprio dai suoi confratelli, mirante a tollerare l’uso della lingua e la pratica dei cosiddetti riti cinesi, fu avversato da missionari di altri Ordini, soprattutto dai francescani e dai domenicani, che pretendendo l’uso esclusivo del latino e del rito apostolico romano, denunziarono, a più riprese i gesuiti presso il pontefice di turno. Il successo dei gesuiti in Cina fu, dunque, dovuto soprattutto al metodo Valignano che, con il consenso di Roma, permise ai cinesi convertiti la contestuale pratica dei vecchi loro riti accanto alla liturgia cristiana. Il Cerimoniale di Valignano era, come detto. un disciplinare e, nello stesso tempo, un vademecum, cioè un manuale di informazioni, di istruzioni, di nozioni di base che, consigliate dalla sua autorità superiore di visitatore, assumevano carattere di direttiva, cioè di indirizzo operativo e di adattamento. La predicazione del Vangelo, per lui, non poteva avvenire nello stesso modo in ogni luogo e per le diverse genti. Il Cerimoniale costituì il manifesto dell’apertura gesuita all’universo giapponese, e poi, applicato anche alla Cina, quello del grande incontro tra Occidente e Oriente.
Qualcuno riduce in sintesi il progetto di Valignano a tre punti principali: adattamento, emulazione, familiarizzazione. Il suo Cerimoniale non era, comunque, il frutto di convinzioni preconcette o di pregiudizi e nemmeno di un progetto preconfezionato e imposto dall’alto, ma il risultato di un attento e ponderato esame della situazione maturato sul campo. Il metodo Valignano fu soppresso ne 1742, quando papa Benedetto XIV (1675-1758), al secolo Prospero Lorenzo Lambertini, 247° pontefice della Chiesa cattolica dal 17 agosto 1740, considerando idolatriche quelle pratiche proibì i riti cinesi.