(di Gianpaolo Ceprini) – La domanda costante che da tempo mi pongo è quale utilità abbiano non solo i vertici economici, che ormai sono sempre più numerosi e la cui sigla non consente più a nessuno, tranne che agli addetti ai lavori su cosa e per cosa si riuniscano, ma principalmente i grandi organismi sovranazionali come ad esempio le Nazioni Unite.
La Carta delle Nazioni Unite approvata nel 1945 da 51 paesi membri all’art. 1 afferma che impegno di ogni Membro è quello di:
- Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai princìpi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace;
- Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale;
- Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione;
Ebbene, se ogni membro rispettasse questo impegno sovrano e sovrannazionale esso sarebbe bastevole per garantire pace e sviluppo armonico, a condizione tuttavia che i partecipanti si spogliassero della loro provenienza e curassero l’interesse del pianeta. Purtroppo, non è così ed ogni Membro finisce per battersi solo per gli interessi più o meno palesi del Paese di appartenenza.
Una riflessione ideologica che muore senza risposta mentre leggo le ultime vicende che scorrono veloci sul monitor e riguardano la triste sorte dei Paesi medio orientali.
Parlare di Medio Oriente non è semplice e lo è ancora meno in questi anni, ed in particolare in questo 2013 che potrebbe essere l’anno decisivo per le sorti di molti popoli di quest’area densa di storia di intrighi e di conflitti.
Ne sono la riprova i documenti che via internet giunti alle cronache ci mostrano che non solo buona parte della storia dell’ultima guerra mondiale va riscritta, ma quella dei nostri giorni mostrandoci una realtà fatta di speculatori senza scrupoli per conquistare le risorse energetiche mondiali.
Ancora è tutto offuscato, ma comunque la chiave di lettura è sempre quella , così va riletta, ad esempio, la recente invasione della Libia da parte inglese.
Gli attori, sempre gli stessi, alcuni subiscono altri dominano, l’obiettivo, le risorse energetiche a cui le recenti innovazioni tecnologiche ne hanno aggiunte altre divenute altrettanto strategiche e tutte per lo più situate in Africa o nel sottosuolo dell’ex URSS. Inghilterra e Stati Uniti da un lato Russia e Cina dall’altro, fanno ala Francia e Germania. Poi, a doverosa distanza, una serie di Paesi che si barcamenano tra i Potenti nella speranza o di non essere invasi e trattati da sudditi o di potersi spartire le briciole di una torta che deciderà la sopravvivenza economica delle rispettive economie.
Vi chiederete perché ho iniziato questo articolo ricordando l’art.1 della Carta delle Nazioni Unite. Credevo, infatti, che questo organismo sovranazionale avrebbe dovuto tutelare l’incapacità dei popoli africani o Medio Orientali, proteggendo non solo i loro popoli dalle aggressioni, ma avrebbe messo sotto la loro ala protettrice le loro risorse naturali nell’interesse non solo dei legittimi proprietari ma dell’intera umanità evitando massacri inutili e speculazioni economiche senza eguali che hanno impoverito una parte del mondo arricchendo i soliti noti.
Ma nessuno dei partecipanti di quel grande organismo pur essendosi preso l’impegno di osservare quanto stabilisce l’art. 1 non ha mai difeso questo diritto prevenendo i conflitti e tutelando la pace e l’incolumità delle minoranze da intrusioni e forme di neo-colonialismo da parte dei Paesi Potenti. Hanno in sostanza abbandonato quelle popolazioni ad essere oggetto di veri e propri massacri etnici da parte di potenze straniere che li hanno artatamente scatenati per subentrare poi come liberatori e finire per essere i “commissari” ovvero, i proprietari delle risorse stesse.
Potrei qui ricordare i tanti interventi americani di cui da ultimo quelli in Afghanistan ed Iraq. Nessuno dei benefici attesi si è verificato, molte delle verità affermate, sono assai discutibili. Un ennesimo fallimento americano?
A Kabul il governo di Karzai non riesce a sopraffare le cellule dei Talebani che condizionano fortemente pace e ripresa del paese tanto che sono in molti a chiedersi se non sia meglio avviare un dialogo proprio con i Talebani per riappropriarsi della pace sociale. E non va certamente meglio in Iraq e lo vedremo appresso.
Tuttavia queste aggressioni hanno cambiato gli equilibri medio orientali.
Si è passati così da un mondo unipolare a guida americana ad un equilibrio multipolare dove gli USA non sono più i dominatori dei rapporti politici ma debbono condividerne la gestione con Cina e Russia.
Anche l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrain e gli Emirati Arabi , filo americani quanto basta da farsi armare di tutto punto con i missili intercettori a terra e sul mare, nonchè con i Patriot dell’ultima generazione, ora, nel timore dell’approssimarsi di una guerra cominciano a distanziarsi preferendo il progetto espansionista dei fondamentalisti wahabiti e salafiti islamici.
Agli USA di Obama in quest’area non rimane che un fedele alleato Israele, mentre con la Turchia i rapporti sono leggermente raffreddati anche se potrebbe giocare un ruolo determinante nella causa siriana.
Una dura realtà che è tristemente confortata in questi giorni da una serie di eventi di sangue. Basta però scorrere lentamente le notizie per capire che la corsa al nuovo Eldorado è in atto e nulla la fermerà e men che meno chi per statuto dovrebbe e potrebbe.
In Iran le elezioni del Majiles (Parlamento della Repubblica islamica) ha visto trionfare la linea conservatrice di Alì Khamenei mettendo in minoranza Ahmadinejad e la sua politica costruttiva. Quindi lo “Jebhe mottahed” (Fronte unito dei conservatori) stravince sulla lista “Jebhe paydari” (sopravvivenza della rivoluzione islamica). Purtroppo, l’isolamento internazionale a cui è sottoposto l’Iran lo sta stringendo in una morsa economica che ha fatto crescere inflazione e disoccupazione portando il ryal ad una svalutazione di oltre 40 punti rispetto al Dollaro e questo non agevola certamente né crescita, né caro vita. Questi i motivi per i quali la linea di Ahmadinejad è perdente. Ma a godere delle disgrazie iraniane sono i cinesi che sono gli spenditori migliori su questa piazza acquistando petrolio e suoi derivati in cambio di merci cinesi e prestiti .
Certo è che la linea dura di Alì Khamenei contro occidente ed Israele non sarà il toccasana per la tranquillità, anzi al primo sbaglio potrebbe essere l’occasione tanto attesa.
Meglio non va nella vicina Siria governata da una oligarchia sciita dilaniata da una guerra civile che non trova soluzione. La comunità internazionale, a parte le sanzioni economiche, lascia fare anche perché intromettersi significherebbe mettere a rischio la tregua con Israele evitando che la popolazione sunnita rompa questo equilibrio abbracciando la causa Palestinese sicuramente più cara di quella israeliana.
I ribelli cercano invano di opporsi alle forze lealiste di Bashar al-Assad ma vengono puntualmente sopraffatti da quelle governative ben armate e superiori quantitativamente e tutto lascia pensare che prima o poi la guerra si combatterà nelle strade di Damasco. Un quadro logorante che presta il fianco a possibili interventi esterni che, come in Libia, solo apparentemente hanno l’intento di porre fine alla guerra fratricida, ma in realtà vogliono solo “commissariare” il paese.
Al Assad è per ora sostenuto sia da Mosca che da Pechino e questo impedisce agli USA un intervento radicale, non rimane quindi che un accordo risolutore tra le potenze occidentali, Turchia e Paesi arabi del Golfo, per risolvere questa crisi senza sbocco. E’ dell’ultim’ora la notizia che il Congresso USA ha autorizzato l’aiuto ai ribelli che lottano contro Al Assad. L’Esercito siriano libero (Esl), la principale forza militare di opposizione al regime di Bashar al-Assad, sta “rapidamente” avanzando verso il Sud della Siria forte, ora più che mai del sostegno americano. Un aiuto che può far precipitare i già difficili equilibri e le cui reazioni potrebbero a loro volta “incendiare” tutto il medio oriente fino alla Tunisia con effetti scatenanti gravi ed incontrollabili.
Dal canto suo nei giorni scorsi l’Unione Europea ha condannato apertamente l’ala militare di Hezbollah inserendola nella black list delle organizzazioni terroristiche.
Un provvedimento applaudito dal Capo dello Stato israeliano, Shimon Peres, criticato dal Ministro Libanese Adnan Mansur che lo ha definito “un’azione condizionata dagli USA”.
Chi lo definisce un provvedimento insoddisfacente ha ragione, basti osservare che l’ala politica e quella militare degli Hezbollah sono entrambe guidate da Hassan Nasrallah. Qual è dunque il metro, condannandone una?
Nel mentre, Israele si prepara a difendere i propri confini nei pressi di Eilat al confine con l’Egitto, ricevendo dall’Arabia Saudita il diritto di sorvolo dei suoi territori.
D’altra parte il governo di Netanyahu e dei suoi alleati oltranzisti significano non solo tensione sui confini con il Libano e con i Territori palestinesi, ma soprattutto con l’Iran, il nemico numero uno di Israele.
In Egitto, invece, la Fratellanza Musulmana con l’aiuto americano si è sbarazzata del potere di Morsi. E’ di questi giorni che l’Unione europea ha chiesto sia il rilascio dell’estromesso presidente egiziano Mohamed Morsi detenuto in una base segreta, sia elezioni democratiche il prima possibile. Tuttavia la situazione socio-politica del paese è ben lungi dal trovare un punto di equilibrio e gli scontri nelle Piazze del Cairo si susseguono e tutto lascia pensare che i poteri forti del Paese lotteranno ancora a lungo per vedere salvaguardati i propri interessi, anche sotto le sembianze di un nuovo sistema politico e istituzionale – quello dell’Islam politico.
Gli interessi stranieri, vedi l’autorizzazione per il transito di navi da guerra americane ed israeliane nel canale di Suez, condiziona la “primavera araba”. Le aspirazioni democratiche del popolo non riescono ad avere quelle opportunità sperate per il proprio futuro ed i cui effetti, ove concretizzatisi, avrebbero potuto influire positivamente nell’area e più favorevolmente sul conflitto israelo-palestinese.
In Libia, si combatte ancora. Il confronto è tra i due blocchi: da un lato chi è con USA, Gran Bretagna, ArabiaSaudita, Qatar, Francia e NATO, dall’altro chi è con Russia e Cina.
Un caso emblematico che mostra chiaramente gli interessi reali nella guerra in Libia dove l’intervento inglese doveva cancellare quanto di buono fece Mattei contro le sette sorelle.
In Tunisia, la nascita di ”Tamarod Tunisie”, movimento popolare, mostra quanto sia contagioso il caso Egitto, tant’è che la popolazione non vuole la nuova carta costituzionale ma nuove elezioni. Gli estremisti non esiteranno a spargere nuovo sangue aumentando l’instabilità del Paese. Come se non bastasse il governo tunisino deve fronteggiare un forte rincaro di prezzi con il rischio di una crisi che potrebbe portare veramente il Paese a nuove elezioni e ad una guerra civile.
In Algeria la lunga malattia del presidente Abdelaziz Boudeflika ha avviato una fase di transizione politica di difficile gestione tanto che il governo ha predisposto misure di sicurezza contro i miliziani di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) nel timore di nuovi attentati resi possibili dalle proteste della popolazione contro l’aumento indiscriminato dei prezzi dei generi alimentari.
Dulcis in fundo non poteva mancare uno sguardo sulla Turchia. Il governo di Ankara non è in grado di mediare i problemi in Medio Oriente, e pur essendo al centro di molti dei problemi dell’area non è in condizioni di dare soluzioni, semmai oltre a dover recuperare il rapporto con gli USA deve fronteggiare situazioni interne di tipo economico che potrebbero debordare, vedi il deficit di bilancio, e far avvitare la crisi al punto da avere effetti negativi con i Paesi vicini a partire dall’Egitto.
Tuttavia questa breve panoramica , lungi dall’essere esaustiva, vede ancora irrisolti due problemi che rimangono i nodi del Medio oriente.
Il primo, riguarda la Palestina, che nonostante il recente riconoscimento da parte delle Nazioni Unite che ha assegnato lo status di Stato non Membro, la sua politica reale non è cambiata. Lo scontro Fatah-Hamas non è risolto e fino a che non verrà definito non cambierà la politica israeliana e la Palestina rimarrà un sogno.
L’altro, è quello del Kurdistan. Un problema in cui la pace in una regione comporta un conflitto in quella confinante, perché il Kurdistan è distribuito su cinque Stati. Dopo il Trattato di Sèvres, alla fine della Prima guerra mondiale, i curdi ebbero una patria indipendente. Seguirono guerre intestine tra clan curdi, poi con gli armeni. Infine, la vittoria definitiva dei nazionalisti turchi e l’affermazione dei bolscevichi nel Caucaso, che causarono una nuova spartizione del Kurdistan che fu spartito fra Turchia, Siria (allora sotto mandato francese), Iraq (sotto mandato britannico) e Persia (di fatto, un protettorato britannico), oltre a un piccolo spicchio annesso all’Unione Sovietica (oggi: Armenia).
Da allora il Kurdistan ha sempre rivendicato la sua indipendenza, contrapponendosi a tutti e cinque i governi che ne occupavano il territorio.
Quello del Kurdistan turco, dunque, è solo un quinto del problema. Aggravato dal fatto che in quel quinto di territorio curdo è sorto un movimento fortemente ideologico, marxista-leninista, appoggiato dall’Unione Sovietica, nemica della Turchia per tutta la Guerra Fredda: il Pkk.
Dopo il crollo dell’Urss il Pkk si batte per l’autodeterminazione dei popoli e l’ecologismo radicale e non trova una perfetta collocazione nella galassia dei movimenti ribelli. Tuttavia, i curdi ritengono sia il momento giusto per l’indipendenza tanto che lo spostamento delle milizie del Pkk dalla Turchia all’Iraq può essere determinante, da un punto di vista strategico, per far nascere un Kurdistan dal distacco del Nord dell’Iraq, che il debole governo di Baghdad difficilmente potrebbe impedire, unendosi al Kurdistan della Siria, dove per la guerra civile l’attuale governo è incapace di poterlo contrastare. Qualora, infine, la crisi iraniana lo consenta può aggregarsi anche quel Kurdistan inglobato a suo tempo dalla Persia. Quindi, per ora il problema non è ad Ankara ma riguarda Baghdad, Damasco e Teheran.
Erdogan per ora tace, ma in futuro se il sogno indipendentista curdo dovesse realizzarsi davvero, la Turchia farà di tutto per osteggiarlo onde evitare che il Kurdistan turco si aggreghi ai connazionali già liberi. Un conflitto solo rimandato.
Su tutti questi problemi Medio Orientali si spera che il Ramadan possa mitigare le tante tensioni che dalla Tunisia, all’Algeria, dalla Libia, all’Egitto, dalla Siria, alla Giordania, stanno tenendo il mondo con il fiato sospeso.
La collettività mussulmana pur se condizionata dalla crisi economica, da tensioni politiche e da climi di guerriglia urbana sappia affrontare il mese di digiuno e penitenza con saggezza al fine di allentare la tensione fra i seguaci della Fratellanza musulmana e di altre flange estremiste che rischiano, con crimini efferati, di mostrare al mondo un aspetto odioso che potrebbe risuscitare coalizioni ben più pericolose e senza soluzione di pace.
Purtroppo, la sensazione di un evento bellico trasuda nell’aria, come è certo che un eventuale conflitto, sia contro la Siria via Giordania che contro il Pakistan, si allargherebbe come un fulmine e vedrebbe l’impiego di armi di tipo nucleare coadiuvate dai sistemi elettrometrici per rendere inefficaci le difese a terra dei paesi attaccati non disdegnando di impiegare anche sistemi di modificazione climatica (Haarp dell’Alaska) già di per se bastevoli a dare seri problemi ai territori colpiti senza sparare un colpo e con conseguenze che si abbatterebbero sulle popolazioni anche in termini economici impoverendole oltremodo.
Ecco, con un’America così impantanata in Medio Oriente, ci si chiede ora come intenda uscirne e come si posizionerà l’Unione Europea di fronte a questo quadro spettrale. In essa si ripongono molte speranze, quelle speranze ormai naufragate nei confronti delle Nazioni Unite. Sarà in condizione la diplomazia UE di contrastare questi difficili squilibri che rischiano di compromettere definitivamente non solo la pace medio orientale, disinnescando quelle aggressività statunitensi che portano solo ad un possibile conflitto mondiale?