(di Clara Salpietro) – “Un mondo pieno di vita e di colori, un mondo che non ti aspetti, difficile spiegarlo a parole”. Così si presentano i fondali dell’Antartide e a raccontarlo sono due palombari del Comando Subacquei e Incursori della Marina Militare (Comsubin), i sottufficiali Giuseppe Tangari e Tommaso Pischedda.
I due palombari sono appena rientrati dalla XXXI Campagna Antartica estiva 2015-2016 del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), coordinata dall’Enea, presso la base italiana “Mario Zucchelli” a Baia Terra Nova.
La missione, iniziata il 16 novembre e conclusasi il 12 febbraio, ha coinvolto 200 persone tra ricercatori italiani e stranieri, oltre i militari di supporto, impegnati a studiare uno degli ambienti più inospitali del mondo, lavorando a temperature medie comprese tra 0°C e -35°C.
Durante la missione il team di palombari del Gruppo Operativo Subacquei ha coordinato e garantito la sicurezza delle immersioni, che hanno un ruolo fondamentale nella ricerca, di tutto il personale scientifico e ha condotto la manutenzione della banchina della base Mario Zucchelli.
Nelle settimane precedenti la partenza, il personale specializzato della Marina ha curato l’addestramento dei ricercatori. “Prima di partire c’è stato un periodo di amalgama – spiega il capo di prima classe Giuseppe Tangari – che ha visto la partecipazione del personale subacqueo e di assistenza, cioè medici e infermieri. Il team era eterogeneo, c’era personale della Marina, dell’Esercito e un biologo dell’Enea, e sono state adottate le procedure di lavoro della Marina. Abbiamo fatto diverse immersioni a differenti quote, tenendo sempre presente il progetto da sviluppare in Antartide”.
In missione i subacquei hanno utilizzato le apparecchiature dell’Enea, acquistate sotto indicazione della Marina, necessarie per isolare dal freddo, tra cui bombole ad aria, mute stagne, maschere granfacciali. “A seconda del freddo – aggiunge Tangari – sotto le mute calzavamo una, due o tre tute termiche aderenti al corpo ed avevamo la possibilità di usare guanti semistagni o stagni a secondo dell’attività da compiere”.
In cosa consisteva la vostra attività?
Siamo stati di supporto ai progetti dell’Enea, ad esempio se i ricercatori dovevano montare un laboratorio subacqueo, noi curavamo il supporto logistico. Essendo questa Campagna un progetto a lungo termine, bisognava scegliere un posto che fosse al riparo del passaggio degli iceberg, in modo da salvare la strumentazione e il prossimo anno l’Enea possa ritrovarla.
Quali sono state le principali problematiche affrontate?
L’esperienza è stata estrema e niente è stato lasciato al caso. Abbiamo curato nei dettagli la programmazione e realizzazione delle immersioni, soprattutto con riferimento alla sicurezza degli operatori. La vestizione è stata accurata, puntigliosa. Ogni volta che si usciva dall’acqua le apparecchiature venivano sottoposte ad una particolare manutenzione, venivano sciacquate con acqua dolce e asciugate all’inverosimile, c’era il rischio che rimaneva l’umidità e quando si andava in acqua la volta successiva potevano andare in blocco. Tutto era pianificato, controllato e ricontrollato fino al momento dell’immersione. L’intensità del freddo si sentiva a seconda delle attività da svolgere, le immersione a quota 30 metri duravano 30 minuti, invece nei pressi del molo, dove l’acqua era bassa circa 4-5 metri, duravano anche due ore.
In immersione come comunicavate con il resto del gruppo presente in superficie?
Per la prima volta, gli operatori in immersione avevano sul gran facciale una telecamera e un sistema di comunicazione diretta con i tecnici. Questo sistema è stato adottato per ridurre i tempi di immersione, per agevolarle e per garantire la sicurezza dei subacquei. Questa strumentazione consentiva al direttore di immersione di guidare in diretta gli operatori. Sulla base dell’accordo firmato con l’Enea, la Marina Militare aveva il compito di gestire le immersioni.
Qual è il ricordo più intenso di questa esperienza?
È il secondo anno consecutivo che partecipo alla spedizione e posso dire che mi sono già ammalato del “mal di Antartide”. In superficie tutto è ovattato, c’è un silenzio irreale, ma una volta oltrepassato il foro praticato nel pack, inizia l’immersione e ci si accorge che c’è vita, c’è un mondo colorato. E’ difficile esprimere la sensazione che si prova. È un mondo sommerso e pieno di vita, in contrasto con quello che c’è in superficie dove si vede solo ghiaccio, pinguini e foche. Sott’acqua ci sono ad esempio animali, alghe, stelle marine ecc…
Ad illustrarci i dettagli delle immersioni e i rimedi per combattere il freddo è il capo di prima classe Tommaso Pischedda: “le immersioni ci portavano via gran parte della giornata. Oltre all’attività subacquea vera e propria, c’è la fase preparatoria e quella post immersione. Nei momenti più intensi del progetto scientifico siamo riusciti a fare due immersioni al giorno, una la mattina e una la sera”.
“Questo è il periodo estivo – aggiunge – ed il sole è presente per 24 ore, quindi le nostre giornate erano schedulate sulla base di orari imposti dall’attività umana. Le attività iniziavano la mattina alle 8 e finivano alle 19,30”.
Una volta fuori dall’acqua come riuscivate a combattere il freddo?
Conclusa l’immersione con un gatto delle nevi venivamo portati immediatamente in base, ci sistemavamo in un locale riscaldato e facevamo una doccia bollente. Gli effetti del freddo comunque durano per tutto il giorno, mani e piedi si sentono intorpiditi. La sensazione di freddo nelle ossa rimane a lungo.
Cosa ha visto durante le immersioni?
Per me è stata la prima volta in Antartide, ogni giorno era un’esperienza nuova, meravigliosa. In superficie vedi solo ghiaccio, nei dintorni del foro praticato nel pack e utilizzato per immergerci si vedevano le prime forme di vita. Una volta all’improvviso è comparsa una foca, un’esperienza incredibile. Nei giorni in cui ci siamo immersi si è aperto un mondo che considero privilegio di pochi. In acqua non riuscivo mai a vedere le foche, quando poi in base riguardavo il video della giornata mi accorgevo che le foche le avevo accanto. È una sensazione che parlarne ancora adesso mi emoziona. Ho visto anche svariate stelle marine che noi non abbiamo, anzi ne ho visto una montagna e i biologi mi hanno spiegato che si stavano mangiando le une con le altre per sopravvivere. Ho visto un pesce caratteristico solo di quelle acque, che nell’evoluzione si è adattato a vivere in quegli ambienti estremi, ha sostituito l’emoglobina nel sangue con una specie di ‘antigelo’ per cui riesce a vivere a quelle temperature senza che si congeli il sangue. La comunità scientifica lo sta studiando per scoprire nuovi medicinali, nuovi trattamenti, a livello sanguigno.
Tornato in Italia, quale è stata la prima cosa che ha fatto?
Ho pranzato con i miei genitori. Dopo 23 anni di servizio e diverse missioni in vari teatri, questa missione in Antartide l’hanno sentita anche loro. Per la prima volta il giorno del mio rientro erano in aeroporto ad aspettarmi. Per me è stata un’emozione. La seconda cosa che ho fatto, ho tagliato i capelli, dopo tre mesi in Antartide erano piuttosto lunghi. In questi anni di carriera di esperienze forti ne ho vissute e ne vivo tutti i giorni, ma la spedizione in Antartide è una delle più forti e mi auguro che ogni palombaro della Marina Militare possa riuscire a farla nel corso della sua carriera.
Vedi anche:
Due palombari della Marina Militare in Antartide per il programma di ricerca dell’Enea