Una bella pagina del nostro controspionaggio e una delle più brutte della nostra giustizia
– di Tindaro Gatani –
Nel quadro della guerra di spie della prima Guerra mondiale si inquadra anche l’episodio conosciuto come Colpo di Zurigo. Sin dall’inizio del conflitto, l’Italia era stata costretta ad assistere impotente ad una serie di gravi attentati alle sue più delicate strutture militari: il 27 settembre 1915, nel porto di Brindisi, un’esplosione causava l’affondamento della corazzata Benedetto Brin. Le perdite furono spaventose: ben 456 uomini dell’equipaggio morirono dilaniate dalle esplosioni o annegati.
Seguivano quindi altri gravissimi atti di sabotaggio: nel porto di Livorno, un’altra inspiegabile esplosione faceva colare a picco la nave di trasporto Etruria con un carico di dinamite per le truppe italiane; ad Ancona saltava in aria un hangar di aerei militari; a Genova esplodevano i locali della dogana; a Napoli venivano fatti saltare in aria depositi di merci e munizioni; la stessa sorte subiva a La Spezia un treno carico di munizioni in partenza dalla fabbrica Pagliari, provocando 265 morti tra civili e militari.
Le informazioni del controspionaggio italiano lasciavano sospettare che la base dei sabotatori si trovasse in Svizzera. La prima conferma di quel sospetto venne nel maggio 1916 quando il console italiano a Zurigo, Rogeri Filippo di Villanova, riferì al Ministero degli Affari Esteri che un certo Livio Bini, un avvocato italiano agente austriaco, lo aveva informato che, lavorando come spia austriaca, aveva potuto appurare che la centrale di quei sabotaggi si trovava proprio nella sede del Consolato austro-ungarico, sito al nr. 69 della Bahnhofstrasse di quella città. L’avvocato Bini, che si dichiarava pronto a collaborare con il controspionaggio italiano, in cambio del condono di un condanna per bancarotta, aggiungeva che sul tavolo del console austriaco Rudolf Mayer aveva addirittura visto i disegni particolareggiati della Leonardo da Vinci, altra corazzata della flotta italiana, contro la quale si preparava un prossimo attentato.
La conferma che l’avvocato Bini fosse credibile avvenne la sera del 2 agosto 1916, quando, nonostante tutte le precauzioni, alle ore 23,45, la Leonardo da Vinci, che già alcuni mesi prima aveva subito dei danni per strane esplosioni avvenute a bordo nel porto di Brindisi, veniva fatta capovolgere dallo scoppio delle sue camere di munizioni mentre si trovava all’ancora nel Golfo di Taranto. Nella catastrofe morirono 21 ufficiali su 34 e 227 marinai su 1156.
I1 controspionaggio italiano intraprese allora tutte le iniziative possibili per impossessarsi dei piani di sabotaggio e degli elenchi degli agenti austriaci custoditi nella cassaforte del Consolato dell’Impero austro-ungarico a Zurigo. L’impresa si presentava quanto mai difficile perché bisognava aprire ben 17 porte prima di arrivare alla cassaforte.
L’incarico fu affidato al comandante Pompeo Aloisi che, coadiuvato dal luogotenente Ugo Cappelletti, si avvalse della collaborazione del sottufficiale della Marina Stenos Tanzin, di quella di Natale Papini, uno scassinatore di rara abilità, che si trovava rinchiuso nelle carceri di Livorno proprio per aver violato i segreti della cassaforte della Banca Marittima di Rapallo, e del meccanico triestino Remigio Bronzin.
Per l’operazione fu fissata la notte di venerdì 23 febbraio 1917 perché la festa del carnevale in corso a Zurigo avrebbe senz’altro distratto le guardie ed i passanti. Cappelletti restava a fare da palo mentre Tanzin, Papini e Bronzin riuscivano ad introdursi nel Consolato austriaco, aprendo una dopo l’altra 16 porte con le chiavi contraffatte, ma la diciassettesima restò chiusa perché il console Mayer aveva preso ulteriori precauzioni, cambiando la serratura al suo ufficio.
Per quella notte, gli italiani dovettero rinunciare all’impresa, e carichi di tutto l’armamentario del quale faceva parte anche un’apparecchiatura completa per utilizzare la fiamma ossidrica, compreso quindi le necessarie e pesanti bombole di ossigeno, dovettero battere in ritirata. Sabato 24 febbraio gli agenti italiani avevano l’impronta della chiave della 17.ma nuova serratura, che veniva prontamente contraffatta, con l’intento di ripetere l’azione la stessa sera, sfruttando ancora il trambusto del carnevale.
La versione ufficiale vuole che sia stato il doppiogiochista Livio Bini a fornire i calchi delle chiavi del Consolato. Un’altra accredita, invece, l’azione di un nostro agente segreto che si fece amante della donna portaordini del Mayer a Roma e a farsi, quindi, assumere dallo stesso Console austroungarico.
Un terza tesi esposta da Eddy Bauer nella sua Storia dello Spionaggio in 8 volumi, De Agostini (1971-1973) con la prefazione di Enzo Biagi, sostiene che: «Con una cifra enorme, il nostro controspionaggio avrebbe ingaggiato un agente di Vienna: da lui sarebbero venute tutte le informazioni necessarie alla buona riuscita dell’Operazione Zurigo».
Il controspionaggio italiano era venuto intanto a conoscenza che le misure di sicurezza, nel corso della giornata sarebbero state rafforzate anche con l’aggiunta di un cane pastore tedesco lasciato libero nei corridoi del Consolato. La sera di sabato 24 febbraio, puntualmente, i tre italiani riuscirono ad introdursi nuovamente nel Consolato e, dopo aver neutralizzato con il cloroformio il cane, iniziarono il paziente rito di apertura delle l7 porte, arrivando quindi alla stanza con la cassaforte.
Fu un lavoro alquanto difficile che durò diverse ore, anche perché dovettero oscurare le finestre con delle stoffe nere, e le esalazioni della fiamma ossidrica rendevano l’aria irrespirabile. Per loro fortuna, i tre italiani trovarono un secchio con dell’acqua ed uno strofinaccio, portandosi il quale, a turno, bagnato sulla bocca riuscirono a portare a termine l’operazione solo verso le tre del mattino. In tempo utile per prendere il primo treno in partenza per Berna con una pesante valigia, che conteneva 650 sterline oro, 875.000 Frsv., 23.000 corone austriache, 1008 napoleoni d’oro, una somma di marchi tedeschi, gioielli e numerose altre monete di valore numismatico ed una rarissima collezione di francobolli.
Ma il valore maggiore era costituito dai codici cifrati, dagli elenchi dei sabotatori e degli agenti austriaci in Italia, e dai piani dei prossimi attentati contro gli obiettivi militari e civili, ed infine anche dai segreti sulle corazzate austriache operanti nell’Adriatico. Il 25 febbraio, il comandante Aloisi, accompagnato da una discreta scorta e con tutti quei documenti racchiusi in valigia diplomatica, partiva per Roma.
In base ai documenti ritrovati in quella cassaforte ed alle successive indagini del controspionaggio italiano fu possibile ricostruire tutte le fasi degli attentati e dei sabotaggi compiuti in Italia sin dall’inizio della guerra. Gli esecutori furono quindi quasi tutti individuati. La rete di sabotatori era costituita da italiani disposti a tradire la Patria per denaro e che in pratica erano al soldo dell’Austria sin da prima dell’inizio delle ostilità.
Un albergatore tedesco che gestiva una pensione sulla Riva degli Schiavoni a Venezia selezionava i sabotatori. Per l’attentato alla Brin, egli si era servito di tre marinai che avevano portato a bordo e depositato nella “santa barbara” della corazzata un potente ordigno ad orologeria. Per la Leonardo da Vinci, era entrato in azione un commerciate di frutta di Modena che era riuscito a corrompere un commissario di Pubblica Sicurezza, che aveva poi ingaggiato due marinai italiani, che furono gli esecutori materiali del sabotaggio. Le bombe utilizzate per gli attentati erano fabbricate in Svizzera ed erano introdotte in Italia da un certo Giorgio Carpi, un soldato di cavalleria disertore, lo stesso che, con Achille Moschin, marinaio elettricista, montava i meccanismi ad orologeria prima di consegnarle agli attentatori. Questi due furono gli unici ad essere poi condannati alla pena di morte, poi trasformata in ergastolo e quindi liberati tra il 1937 ed il 1942.
Ai processi tenutisi, nel 1920, le prove schiaccianti divennero solo ombre di sospetto. Rimasero, allora, sconosciuti gli organizzatori di tutti i sabotaggi, i cui nomi erano scritti a chiare lettere nelle carte di Mayer. Le inchieste della magistratura e quelle di una commissione parlamentare non portarono a nessun risultato. Era stato tutto misteriosamente insabbiato. Il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove.
I documenti più compromettenti, custoditi nella cassaforte della giustizia militare, furono infatti manomessi e resi quindi inutilizzabili davanti al giudice.
I gioielli, le monete ed i francobolli, che appartenevano al console Mayer ed ai suoi collaborati, a guerra finita, saranno restituiti ai legittimi proprietari. E la ricevuta firmata dal Mayer, in data 11 dicembre 1922, ai due ufficiali della polizia italiana che si erano appositamente recati a Vienna, è, come sottolinea Eddy Bauer, «l’unico documento che può provare il ‘furto’ di Zurigo».
La giustizia italiana, invece di prendersela con chi aveva causato tanti disastri e tanti morti e portato la Nazione sull’orlo della sconfitta, se la prendeva con l’avvocato Livio Bini, che, appena tornato in Italia, fu arrestato per scontare la vecchia condanna per bancarotta senza nessun sconto.
L’altro scornato di tutta l’operazione fu Natale Papini, lo scassinatore livornese al quale era stato promesso tutto il contenuto della cassaforte che non fossero i documenti segreti. Gli fu dato solo un acconto di 30.000 lire con la promessa di una più sontuosa ricompensa, che non giunse mai. Con quella somma aprì un’officina. In vecchiaia a causa di un incidente e di una grave malattia finì nella miseria…
Nel 1954, dunque, 37 anni dopo il Colpo di Zurigo, la legge che riconosceva a Papini una pensione sociale per meriti militari fu votata dal Parlamento italiano… ma fu tutto inutile…egli morì prima di riscuotere il primo assegno!