(di Clara Salpietro) – L’uccisione di Gheddafi nel 2011 ha portato in Libia un nuovo conflitto che vede oggi due governi l’uno contro l’altro e diverse fazioni in lotta, oltre alla presenza sempre più numerosa di elementi che fanno parte dell’Isis. A tutto questo si aggiungono i barconi di migranti che partono dalle coste libiche, tentando di approdare su quelle italiane. Questo lo scenario analizzato nel corso del convegno “Il conflitto in Libia e la stabilità del Mediterraneo: strategie interne e esterne“, tenutosi a Roma presso il Circolo Ufficiali Forze Armate ed organizzato dal Centro Studi Roma3000, presieduto da Alessandro Conte.
“Sono 190 mila i migranti soccorsi durante l’operazione della Marina militare italiana ‘Mare nostrum’ tra il 2013 e 2014”, ha affermato Francesco De Leo, giornalista, direttore di Oltreradio e moderatore dei lavori, aggiungendo “sono sei mila i migranti soccorsi in mare durante l’operazione Triton a guida Frontex dal 1° gennaio 2015 ad oggi. Sono 109 i barconi sequestrati dalle autorità italiane dall’1 gennaio 2014 al 15 febbraio 2015, mentre sono 150 i barconi affondati. Un migrante per entrare in Libia deve pagare 5mila i dollari, a cui deve aggiungere altri 1500 dollari se intende raggiungere, via mare, l’Italia”. Un quadro sconvolgente con cui purtroppo oggi dobbiamo confrontarci.
Per il direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), Giampiero Massolo, “quello che è successo, era, entro certi limiti, inevitabile nel bacino del Mediterraneo”. “Era molto difficile pensare – ha proseguito – che in un’epoca in cui tutto accade contemporaneamente nello stesso luogo, potesse mantenersi a lungo lo scambio tra regimi autoritari e sicurezza a cui, con troppo comodità, eravamo abituati”.
“In termini di sicurezza – ha detto Massolo – si sono moltiplicati gli spazi fuori controllo, nel senso che i confini sono diventati porosi; gli apparati di sicurezza sono saltati; le aree di governo effettivo sono diminuite; i traffici di ogni genere, dagli esseri umani, alle armi, alla droga, si sono moltiplicati e si è molto attenuata la differenza sul campo tra l’attività organizzata di tipo criminale e quella terroristica. Questo ha provocato la fine di quello che era stato un tentativo di regia centrale del terrorismo jihadista, le varie Al Qaeda si sono regionalizzate ed inoltre sono nate le cosiddette Ansar locali. Il tutto mentre la comunità internazionale, in qualche modo, consentiva il cronicizzarsi di conflitti in Iraq e in Siria. Il vuoto è stato occupato da una organizzazione che presenta un elemento di grande novità e mi riferisco a Daesh, conosciuta anche come Isis o Islamic State. Un’organizzazione favorita da quello che era stato percepito come un mal governo nei confronti dei sunniti in Iraq, favorita dal cronicizzarsi della crisi in Siria, da elementi tribali sul terreno e da alcuni elementi ex saddamiti in Iraq. Ci siamo trovati di fronte al rapido avanzare di una organizzazione che da un lato era regionale, quindi agiva localizzata in un’area che è l’Iraq e la Siria, e dall’altro aveva l’ambizione di farsi Stato con il ritorno al Califfato”.
“Questa è una minaccia nuova – ha osservato il direttore generale del DIS – perché rappresenta allo stesso tempo una sfida asimmetrica, tipica di tutti i terrorismi, e dall’altro lato si pone come una minaccia simmetrica, cioè come una sfida da Stato a Stato. Ha l’ambizione di impadronirsi in quei territori di istituti bancari e tenta di produrre e commercializzare petrolio. È un’organizzazione che possiede la capacità di comunicare, ingigantendo i suoi successi grazie ad una attività di marketing di tipo occidentale, facendo agitare bandiere nere dell’Isis ad organizzazioni locali di tipo criminale o ad organizzazioni terroristiche di secondo livello”.
“Il propagarsi di questa organizzazione – ha sostenuto Massolo – verso le monarchie del golfo, rappresenterà per la comunità internazionale la fonte principale di preoccupazione. A complicare lo scenario ci sono altri due elementi, in pratica due rivalità sanguinose tradizionali: il conflitto intra sunnita e il predominio nel mondo islamico tra i sunniti e gli sciiti. A questo si aggiunge l’ambizione di una organizzazione di successo come l’Isis di esportare il modello del Califfato in altre altre geografiche fuori dall’Iraq e dalla Siria, ad esempio in Libia, in Sinai, in Somalia, in Nigeria settentrionale, in Mali e ovunque vi sia scarso controllo da parte dei governi”.
“Da questo punto di vista – ha sostenuto il direttore del DIS – la Libia si inserisce in un contesto emblematico, nel senso che anche in Libia abbiamo una situazione su tre livelli. Da un lato una classica situazione di conflitto tra potenze sunnite, che è un conflitto sul futuro stesso dell’islam politico. Poi c’è lo scenario intra libico, dove si combattono e si confrontano le tribù tradizionali e anche soggetti nuovi, come le milizie di Misurata. Il terzo livello è quello del terrorismo jihadista con Al Qaeda sotto forma di Ansar Al-Sharia e con un articolarsi sempre più invasivo da parte dello Stato Islamico in alcune zone. Bisogna considerare questi tre livelli in Libia, perché la Libia non è solo terrorismo e non è solo immigrazione, ma è un fenomeno complesso”.
“La gestione di questo scenario – ha concluso – deve avvenire su tre livelli, un livello politico-negoziale, cioè l’idea di assecondare la formazione di un governo che prima di tutto sia percepito come rappresentativo dagli stessi libici, oltre ad avere un riconoscimento formale dalla comunità internazionale; poi occorre lavorare su quelli che sono i fondamenti della società libica, che è una società tribale; infine il livello operativo della limitazione delle attività migratorie e delle attività di tipo terroristico. Un Paese come l’Italia che si accinge ad ospitare eventi rilevanti, come Expo, questo quadro lo deve attentamente considerare”.
A raccontare la Libia prima e dopo Gheddafi è stato il giornalista Pino Scaccia, per il quale la situazione in Libia oggi è “articolata e complessa”.
“Nel 2011 io sono stato a Bengasi perchè non credevo ai filmati che arrivavano in Italia – ha spiegato – e quello che ho visto lo racconto nel libro ‘Shabab’ che vuol dire giovani. Proprio i giovani, infatti, sono diventati i protagonisti della rivolta in Libia, il nocciolo duro che ha innescato l’insurrezione”.
“Io e altri giornalisti italiani – ha raccontato Pino Scaccia – siamo stati ospiti cinque volte di Gheddafi, il quale voleva mostrare il volto buono della Libia, in quanto aveva avuto di nuovo credibilità internazionale e nel paese si notava uno sviluppo turistico. Aveva fatto un accordo sul piano turistico con gli americani che avevano costruito dei grandi alberghi sulle selvagge coste libiche. Gheddafi non si faceva più chiamare ‘colonnello’ ma ‘fratello leader‘, perché sosteneva che il popolo era sovrano e non aveva bisogno di votare, e lui era solo una specie di coordinatore. Faceva finta di chiedere consiglio al popolo ma in realtà era lui a decidere. La Libia era un paese laico, non c’era disperazione ma nemmeno benessere. A dividere internamente il Paese era il problema delle risorse, da un lato la Cirenaica che aveva le risorse petrolifere, dall’altro la Tripolitania che gestiva l’economia. La rivoluzione è stata costruita a tavolino un anno prima, anche dal punto di vista mediatico. Il traditore, o meglio il gancio dei francesi, è stato il capo del cerimoniale di Gheddafi, di nome Nuri el-Mismari, che conosceva abitudini e segreti e seguiva come un’ombra il leader libico”.
“Nuri el-Mismari – ha aggiunto il giornalista – si è recato a Parigi nell’ottobre 2010, un anno prima dell’uccisione di Gheddafi, con la scusa di dovere fare delle cure mediche, ma dalla capitale francese non si è più spostato e da lì ha condotto la rivolta contro il regime. Gli Shabab, cioè i giovani, avevano entusiasmo ma non avevano né i mezzi né le capacità per rovesciare un regime forte come quello di Gheddafi, ci sono riusciti perché dietro avevano già i jihadisti, che li addestravano, ed inoltre si erano infiltrati anche i servizi segreti del mondo occidentale”.
“Gheddafi aveva già preannunciato – ha detto infine il giornalista – che dopo di lui ci sarebbe stato il caos. Di fatto la rivolta in Libia è stata guidata dall’Emiro del Qatar che aspira a diventare il leader del Grande Islam e gli italiani, i francesi e gli americani hanno favorito questa islamizzazione non solo della Libia ma di tutta l’area”.
Contrario agli interventi armati in Libia e all’impossibilità di un blocco navale, Scaccia crede l’unica via sarebbe “di trovare un accordo politico”, difficile però in questo momento da mettere in pratica in quanto “manca un vero interlocutore”.
“Per inquadrare la situazione della Libia nel contesto internazionale – ha osservato Andrew Spannaus, analista politico internazionale direttore del Transatlantico – dobbiamo considerare le varie forze regionali e nazionali in gioco. In questo momento c’è una divisione intorno a due orientamenti, da una parte chi sostiene e vuole utilizzare i gruppi estremisti più violenti per motivi politici, dall’altra la ricetta della stabilità e della cooperazione come baluardo contro l’estremismo più violento”.
“Nel 2010 el-Mismari è andato a Parigi – ha proseguito – per organizzare la rivolta libica, che è stata alimentata dai servizi segreti dei paesi coinvolti. All’operazione militare ha partecipato anche il presidente Obama, che è stato convinto dalla parte della sua Amministrazione che propone la dottrina del ‘right to protect’, cioè la ‘responsabilità di proteggere’, a questo si è aggiunto l’appoggio forte di Hillary Clinton. La guerra è iniziata con la ‘no fly zone’ in Libia ed è diventata velocemente una guerra più ampia, fino ad arrivare all’uccisione di Ghaddafi”.
“Oggi si sta parlando – ha sostenuto Spannaus – di creare una Nato sunnita, un’alleanza militare per dare un segnale anti Iran. Di questo si parlerà a maggio al Consiglio di cooperazione del Golfo che si terrà a Washington”.
“A mio avviso dobbiamo affrontare i problemi del Medio Oriente in modo corale, cercando di arrivare alla stabilità. È essenziale coinvolgere – ha concluso – gli altri attori internazionali, come la Russia, perché sta crescendo la schiera dei Paesi che vogliono collaborare con i Brics a livello sia economico che militare. Si tratta di Paesi che non si fidano più dell’Occidente”.
Le conclusioni sono state tratte dall’avvocato Alessandro Forlani, ex parlamentare e presidente della Commissione Studi di Geopolitica di Roma3000.
“Appartengo a quella generazione – ha esordito – che non può serbare ricordi favorevoli di quello che è stato il ruolo storico di Gheddafi in Libia. Ricordo tanti passaggi negativi, dall’espulsione traumatica senza indennizzi di molti nostri connazionali, all’assassinio a Roma dei dissidenti da parte di killer che si riteneva fossero emissari del regime, fino alla tragedia di Ustica nel 1980 e alle incursioni economiche libiche nel nostro sistema imprenditoriale e in grandi enti ed holding a partecipazioni statali. Pur senza rimpianto, ho assistito con preoccupazione a quanto accaduto in Libia nel 2011 nel quadro delle cosiddette ‘primavere arabe’. In Libia c’è stata una rappresentazione artificiosa di quello che realmente avveniva, per indurre le potenze occidentali ad un intervento”.
“La ‘no fly zone‘ è stata decisa – ha dichiarato Forlani – per ragioni umanitarie, di fatto era non solo una vigilanza dall’alto ai fini di protezione umanitaria, ma una vera e propria forma di intervento militare che ha portato alla deposizione e uccisione di Ghaddafi. L’abbattimento di una dittatura, con il supporto, in forma militare, politica o diplomatica, della comunità internazionale, deve però contenere un elemento di previsione di quello che sarà il futuro. Questo non è invece avvenuto in Iraq e nemmeno in Libia. È mancata la previsione di un gruppo dirigente che potesse apparire affidabile in un Paese come la Libia, considerato importante per gli equilibri geo-strategici. La Libia è uno Stato disgregato e sta seguendo le sorti di un’altra area importante che è la Somalia”.
Sulle varie ipotesi circolate nei giorni scorsi in merito al blocco del flusso dei migranti, l’avvocato Forlani ha affermato: “Sono molto perplesso sulla questione del bombardamento dei barconi, credo che bisogna invece individuare operazioni militari chirurgiche, mirate per colpire i trafficanti, le loro organizzazioni, i loro siti internet e le loro forme di propaganda e proselitismo. L’Europa dovrebbe mettere in piedi un apparato repressivo, così come è stato fatto con la pirateria, perché la sfida è elevata e produce conseguenze allarmanti. Servono poi iniziative per aiutare i migranti, bisogna individuare corsie preferenziali per quei migranti che veramente fuggono dalla persecuzione e da azioni che mettono a repentaglio la propria incolumità. Tutte le azioni devono essere però attuate nel momento in cui c’è un interlocutore istituzionale.”
“Va rafforzato – ha aggiunto – il tentativo delle Nazioni Unite di arrivare ad una pacificazione tra i due governi principali di Tripoli e di Tobruk, cercare di capire e trovare le ragioni per un governo di unità nazionale. Le emergenze che riguardano l’emigrazione e il desiderio di fuggire sulle coste occidentali non possono aspettare una soluzione diplomatica complessa, quindi è necessaria fin da oggi una presenza sul posto che cerchi di contenere il fenomeno e di aiutare in modo diverso queste persone in fuga da quell’inferno. Speriamo che in sede di Parlamento italiano e in sede di Consiglio europeo si possano elaborare delle soluzioni e poter così avere indicazioni che prescindano dai pregiudizi e dalla demagogia”.