(di Clara Salpietro) – Cecil Richard Dallimore-Mallaby, conosciuto come Dick Mallaby, era il radiotelegrafista inglese che fu l’esclusivo tramite tra i vertici italiani e gli Alleati in tutte le fasi dell’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre 1943 e reso noto alla nazione l’8 settembre. La storia e l’importante ruolo svolto da questo agente speciale del S.O.E. (Special Operations Executive) viene descritta da Gianluca Barneschi, avvocato romano nel settore delle radiodiffusioni e telecomunicazioni con il pallino della ricerca storica, nel libro “L’inglese che viaggiò con il Re e Badoglio. La missione dell’agente speciale Dick Mallaby” (Libreria Editrice Goriziana, pagg. 290), la cui seconda edizione è stata da poco pubblicata.
Un volume frutto di anni di ricerche, di un certosino lavoro di ricostruzione, a cui si aggiunge uno stile di scrittura scorrevole ed accattivante.
La storia di Mallaby era misconosciuta e viene portata alla ribalta dal libro di Barneschi, oggetto di numerose presentazioni in tutta Italia, da ultimo a Roma, nei locali della Galleria Sallustiana, con la partecipazione di Elettra Mallaby, nipote dell’agente inglese, e a Gorizia, nel corso dell’edizione 2015 di èStoria, Festival Internazionale della Storia.
Della ‘particolare’ vita di Mallaby abbiamo parlato con l’avvocato Gianluca Barneschi, scrittore appassionato dei fatti del 1943 in Italia.
“Mallaby era nato in Sri Lanka – racconta -, ma viveva in Toscana. Parlava quattro lingue, era un agente del SOE e, nel 1943, durante la delicata fase delle negoziazioni per la resa italiana, fu l’esclusivo trait d’union tra i vertici italiani e i comandi supremi angloamericani. Fu lui che materialmente trasmise e ricevette tutte le comunicazioni tra Roma e la base alleata di Algeri. Ha vissuto due avventure straordinarie, è stato un testimone della storia. Preciso che Mallaby era un agente speciale, non un agente segreto. Il SOE (Special Operations Executive) è stato l’antesignano del corpo speciale e raramente si occupava d’intelligence. Gli agenti del SOE sono stati fonte primaria di ispirazione per Ian Fleming, giornalista, militare e scrittore inglese, celebre per aver creato il personaggio dell’agente segreto James Bond – nome in codice 007. Il fratello di Fleming era stato agente SOE per un anno e infatti nel libro di Fleming spuntano le tecniche operative del SOE a lungo secretate. Tutto quello che vediamo nei film di James Bond, in effetti, non è inventato, ma proviene dalle esperienza operative degli uomini (e donne) del SOE che avevano sempre necessità di mimetizzare e nascondere quarzi per le ricetrasmittenti, cifrari, denaro, documenti falsi, ma anche penne esplosive ed armi varie”.
Ci può raccontare qualcosa in più in merito al S.O.E.?
Il S.O.E. (Special Operations Executive) era un corpo segretissimo dell’esercito britannico, voluto e creato da Churchill in persona, che creò anche il suo motto fondante: “Ed ora incendiate l’Europa!”, per gestire tutte le attività “non convenzionali”, vietate dalle convenzioni internazionali. Le gesta degli agenti S.O.E. furono la principale ispirazione per Ian Fleming (il cui fratello militò nella struttura) per la creazione di James Bond.
Peraltro, il S.O.E. fu continuamente osteggiato dagli altri apparati dell’esercito britannico, che non ne apprezzavano i metodi e, in più di un’occasione, ne chiesero la soppressione, a causa anche di alcuni gravi disastri operativi verificatisi.
L’attitudine operativa del S.O.E. era alquanto pragmatica e, nel reclutare i soggetti necessari non sia andava per il sottile; anche delinquenti e scassinatori fecero parte della manovalanza del corpo, a livello aneddotico si ricorda sempre che Re Giorgio in persona encomiò un agente del SOE che nella vita normale era il proprietario di una catena di bordelli di Londra.
Fino agli anni ‘80 in Inghilterra veniva addirittura negata l’esistenza stessa del S.O.E. e, anche se sono state distrutte molte carte, in merito alle vicende rilevanti per la mia ricerca penso di aver trovato tutto.
Gli agenti del S.O.E. furono quelli con la più bassa permanenza in vita in missione: ciò conseguiva alle caratteristiche delle loro attività ed al fatto che quasi sempre agissero in territorio nemico senza uniforme.
Per quanto riguarda le operazioni in Italia, il S.O.E. subì uno smacco clamoroso, in quanto la sua rete italiana venne totalmente infiltrata dagli uomini del S.I.M. (servizio di informazione militare) e dall’OVRA (la polizia segreta dell’Italia fascista), evento mai divulgato per settant’anni, anche se gli stessi inglesi hanno sempre riconosciuto che gli organi d’intelligence italiani furono il loro avversario più duro.
L’abilità dei servizi italiani fu tale che i responsabili della gestione delle operazioni italiane del S.O.E. si vantavano ripetutamente con Churchill in persona per la qualità e capacità della loro rete di sedicenti antifascisti pronti a tutto ed elargirono loro fiumi di denaro ed esplosivo. Gli italiani, per dimostrare che l’esplosivo veniva utilizzato, al verificarsi di qualche incidente o distruzione (bellica o no), informavano gli inglesi, millantando la loro responsabilità al riguardo. L’effettiva situazione venne svelata solo nel novembre del ’43, quando gli apparati inglesi iniziarono a collaborare anche sui temi di intelligence con gli italiani schieratisi con il Re e Badoglio e con intuibile panico gli inglesi appresero che la loro rete di antifascisti era in effetti interamente composta, o controllata dal SIM e dell’OVRA.
Cosa accadde l’8 settembre 1943?
L’8 settembre 1943 accadde di tutto. Un ridicolo pasticcio, le cui responsabilità non furono, peraltro, solo italiane. Radio Algeri, alle ore 18,30, attraverso la voce del generale Eisenhower, annunciò la resa italiana, sottoscritta il 3 settembre a Cassibile, cogliendo di sorpresa tutta la nazione.
La prima voce italiana che diede l’annuncio fu quella del maresciallo Badoglio, il quale, sempre via radio, un’ora più tardi rispetto al generale Eisenhower, sulle frequenze dell’Eiar segnalò che: “Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. L’8 settembre è stato un momento imbarazzante, che secondo me pesa ancora sulla credibilità del nostro Paese. Per 70 anni sull’8 settembre 1943 si è scritto e detto di tutto e di più, sono state diffuse versioni ufficiali che facevano acqua da tutte le parti e versioni puramente dietrologiche. In questi anni è mancato quello che si dovrebbe fare di solito, cioè ricerca studio e analisi.
Gli studiosi hanno lasciato morire in questi decenni tutti i protagonisti della storia, testimoni oculari che potevano raccontare e documentare eventi vissuti in prima persona.
Come si è imbattuto nella storia di Mallaby?
Molto semplicemente per curiosità: ponendomi una domanda che nessuno si era posto per 70 anni. Infatti, studiando e ristudiando, negli ultimi 20 anni, gli avvenimenti del 1943, ad un certo punto lessi che a Brindisi, a conclusione della famosa fuga da Roma che coinvolse le principali cariche militari e istituzionali del nostro Paese, insieme a Vittorio Emanuele III, Pietro Badoglio, regina, principe ereditario e a tutti gli altri, sbarcò anche un inglese, di nome Dick Mallaby. ‘Un inglese??!!’ Mi sono chiesto come fosse possibile. Dopo un decennio di lavoro ho scoperto che quella che pareva una microstoria peculiare in effetti aprisse le porte alla clamorosa ed inedita spiegazione di due eventi di fondamentale macrostoria. Dopo molte ricerche sono riuscito a mettermi in contatto con i parenti di Mallaby: la moglie, che nel periodo bellico lavorò sempre per il S.O.E. presso le basi di Algeri, Monopoli e Siena, e i figli vivono in Italia.
All’inizio la famiglia era restia a raccontare questa storia in quanto specialmente la signora Mallaby riteneva di essere ancora vincolata al segreto. Dopo quattro anni di insistenze, spiegando che i vincoli di segretezza potevano considerarsi cessati e che la storia di Dick Mallaby era fondamentale e andava divulgata, ho avuto via libera.
Così ho potuto consultare l’archivio di due generazioni della famiglia e il diario segreto bellico di Dick Mallaby.
Tra l’altro, uno dei primi documenti che mi venne fornito dalla famiglia Mallaby fu una lettera del sergente Griffoni, strettissimo collaboratore del generale Giuseppe Castellano, del maggiore Luigi Marchesi e del generale Vittorio Ambrosio, nella quale costui scriveva a Mallaby rammentandogli le storiche giornate dell’agosto-settembre 1943. Ho impiegato tre anni per avere informazioni su questo Griffoni e sono riuscito a rintracciare la moglie e anche lei mi ha fornito molta documentazione che io ho usato per questo libro. Queste carte se non le avessi prese io sarebbero andate disperse.
Le mie ricerche sono state completate con l’acquisizione di carte in precedenza segrete, presso gli archivi italiani, statunitensi ed inglesi. Quanto scaturito dal mio lavoro di ricerca, era conosciuto solo al 40 per cento dalla famiglia Mallaby, perché il loro Dick aveva parlato sempre pochissimo delle sue attività belliche.
Qual è stata la prima missione in Italia dell’agente speciale Mallaby?
È stata proprio quella che lo portò a divenire l’uomo fondamentale nelle trattative della resa italiana agli Alleati. Mallaby il 14 agosto 1943 si paracadutò di notte sul lago di Como con la sua dotazione da James Bond (tra l’altro fu tra i primi in assoluto, se non proprio il primo, ad effettuare un ammaraggio notturno in acqua). Doveva organizzare un centro trasmissivo per la sedicente rete di antifascisti creata dal S.I.M.. Gli italiani lo catturarono subito, scoprendo tutta la sua sofisticata attrezzatura. A salvarlo intervennero le trattative di resa che erano già in corso in Portogallo. Il generale Giuseppe Castellano era andato a trattare l’armistizio con gli anglo-americani e quando si passò alla fase operativa si pose la necessità di comunicare in modo sicuro e criptato tra le parti senza essere intercettati dai tedeschi, con i quali l’Italia era ancora alleata. Venne fatto presente agli italiani che una delle loro radio per comunicazioni segrete fosse già in Italia e anche per evitare la fucilazione di Mallaby, la cui cattura era stata appresa, venne fatto credere agli italiani che lui fosse l’unico a disposizione in grado di usarla.
Così, senza saperlo, l’agente Mallaby diventò l’esclusivo tramite delle segretissime comunicazioni inerenti le trattative fra i vertici italiani e il Comando Alleato del Mediterraneo ad Algeri. Mallaby, dal carcere di Regina Coeli il 27 agosto venne portato nel luogo più strategico e riservato d’Italia, la sede del Comando Supremo italiano, dove gli fu consegnato un apparato radiotrasmittente consegnato a Castellano a Lisbona.
Mallaby dovette essere prima convinto di non essere caduto in una trappola e poi questo radiotelegrafista inglese, che ancora era un nemico, da un luogo nel quale ancora erano presenti soldati tedeschi, con il suo indice destro e le sue orecchie iniziò a trasmettere e ricevere tutti i messaggi tra i vertici italiani e gli alleati sull’armistizio. L’insieme delle comunicazioni che Mallaby ricevette e trasmise sono quelle che fanno capire la vera storia dell’8 settembre, sono comunicazioni ufficiali, vere, effettive, che non sono state mai manipolate. Mallaby, dopo l’annuncio della resa, viaggiò con il Re Vittorio Emanuele III e Badoglio da Ortona a Brindisi sulla corvetta ‘Baionetta’, continuando a tenere i contatti con i comandi alleati. Sulla corvetta vi erano anche poche altre persone della famiglia e del seguito reale, dei militari e del governo.
E la seconda missione?
La seconda missione di Mallaby ha a che fare con l’operazione Sunrise, cioè la lunga e segretissima trattativa condotta tra l’O.S.S., il servizio segreto americano, diretto da Allen Dulles e il comandante delle S.S. in Italia, Karl Wolff. Nel 1945 Mallaby con due membri della resistenza cattolica iniziò una missione nel Nord Italia e anche questa volta venne catturato quasi subito.
Mettendo in pratica il primo comandamento dell’agente catturato in territorio nemico: prendere tempo, “rivelò” di essere un capitano inglese incaricato di incontrare il comandante delle truppe della Repubblica Sociale Italiana, il maresciallo Rodolfo Graziani, per consegnargli un messaggio riservatissimo del maresciallo Alexander, per valutare la disponibilità degli italiani a collaborare con gli Alleati per evitare, al momento della ritirata dei tedeschi, ulteriori distruzioni e spargimenti di sangue. Gli italiani rimasero molto perplessi e Graziani si rifiutò di incontrarlo. Dopo vari interrogatori, tra cui quello del capo del controspionaggio italiano, Mallaby venne consegnato alle S.S. a Verona che, pur interrogandolo senza tregua, lo trattarono con un certo riguardo. Poi il colpo di scena finale: Mallaby, viene portato in una villa presso il lago di Garda e si trova al cospetto del capo delle SS in Italia, il generale Karl Wolff, che lo accoglie con fare cordiale. Il generale Wolff gli dice che la sua storia non è stata ritenuta credibile ma gli fa capire che è disponibile a negoziare con gli Alleati una resa dei tedeschi in Italia, senza gli spargimenti di sangue e le distruzioni ordinate da Hitler. Mallaby viene così incredibilmente liberato per portare la risposta di Wolff al maresciallo Alexander. Al confine con la Svizzera, Mallaby, però, viene imprigionato come emigrato clandestino e per 15 giorni non riesce a comunicare al comando inglese gli esiti della sua missione. Però, Wolff agisce autonomamente ed inizia le trattative senza attendere il riscontro di Mallaby; gli inglesi titubanti e timorosi decidono di non avere rapporti riservati con il generale delle S.S. e passano la trattativa agli americani. Dopo sappiamo come è andata a finire e se l’Italia del nord non venne ulteriormente distrutta lo si deve anche alla suggestione indotta da Mallaby in Wolff.
Per la sua prima missione, in merito alla quale Eisenhower in persona aveva comunque raccomandato di divulgare per lo stretto indispensabile il ruolo avuto dall’agente inglese, Mallaby il 7 dicembre 1943 è stato decorato con la Military Cross, onorificenza raramente attribuita ad un sottufficiale. Non ricevette invece alcun encomio per la seconda missione, ed anzi inizialmente fu addirittura sospettato di aver fatto una sorta di “triplo gioco”. La vicenda venne reputata talmente delicata che l’ordine fu di non divulgarla neanche all’interno del S.OE. Mallaby dopo il 1945 lavorò come interprete nelle basi N.A.T.O., prima a Napoli poi a Verona, dove morì nel 1981.
Come nasce questa passione per la scrittura?
Nasce un po’ dai cromosomi credo. Mio padre, Renato Barneschi, giornalista e saggista storico, ha scritto il best seller italiano di saggistica storica “Vita e morte di Mafalda di Savoia a Buchenwald” e fu il primo esordiente a vincere il Premio Bancarella nel 1983. Nel 1986, sulla base di decenni di ricerche e scoperte importantissime, dovute anche alle rivelazioni di membri della famiglia Savoia, pubblicò un altro libro di grande successo, “Elena di Savoia – Storia e segreti di un matrimonio reale”. Poi, purtroppo, nell’anno successivo ci lasciò.
Io ho sempre avuto interesse per la storia, ma un ventennio fa iniziai ad appassionarmi agli avvenimenti del 1943. E poi sono riuscito a diventare protagonista attivo in questa mia passione. Nel 2005 ho scritto il libro “Balvano 1944”, che, dopo sessanta anni, ha rivelato i segreti del più grave e ignorato disastro ferroviario della storia. Il volume, oltre a rivelarsi un caso storico-letterario è risultato vincitore del Premio Basilicata 2005 per la saggistica storica. Nel 2014 è uscita una nuova edizione dal titolo “Balvano 1944. Indagine su un disastro rimosso”.
Mi sono occupato della tragedia ferroviaria di Balvano perché come appassionato di ferrovia, sempre casualmente, appresi di questo gravissimo disastro nel quale morirono più di 600 persone, in pratica fu il “Titanic ferroviario”, come felicemente sintetizzato nel documentario che Rai Storia ha mandato in onda lo scorso 3 marzo, con la mia partecipazione. E il mio stupore, oltre che per la tragedia fu per l’oblio caduto sulla stessa. A quel punto iniziai frenetiche ricerche, svolte anche in archivi non accessibili al pubblico, ma la documentazione su questa vicenda in Italia era tutta sparita. Quello che non ho trovato in Italia, sono riuscito a trovarlo presso gli archivi britannici. La provincia di Potenza, quando avvenne la tragedia, era sotto l’amministrazione degli Alleati. Negli archivi inglesi ho trovato le oltre 600 pagine dell’inchiesta che ho desecretato per la prima volta e messo a frutto. Nel 2009, poi, ci fu un colpo di scena in quanto mi giunse una lettera di un telegrafista di una stazione vicina al luogo del disastro, il quale mi confermò che l’enorme bilancio dei morti fu conseguenza al grande ritardo dei soccorsi. Poi ho ricevuto una comunicazione dall’Australia di una cortese signora il cui padre era passato dopo poche ore nella zona della tragedia e aveva scattato una foto. Quella foto è diventata la copertina della seconda edizione del libro sulla tragedia di Balvano.
Chi sarà il protagonista del suo prossimo libro?
Sto lavorando sulla storia del generale Nicola Bellomo, fucilato dagli inglesi l’11 settembre 1945. Ho già trovato materiale importante ed inedito e con ogni probabilità anche questa volta dopo 70 anni riuscirò a raccontare qualcosa di interessante ed inedito.