(di Anthony Brown) – Un tragico destino accomuna due recenti fatti di cronaca verificatesi il mese scorso in due Paesi apparentemente distanti, con esperienze politiche ed economiche differenti: l’Algeria e la Somalia, ma accomunate da un asse preferenziale percorso dalle forze estremiste e violente della guerra santa salafita attestate in Africa a cavallo del 12° parallelo e in rapporto osmotico con i focolai di tensione asiatici attraverso lo Yemen.
In particolare, il sedici gennaio scorso un cittadino francese, Denis Alex, decedeva per mano degli islamisti somali di Shabaab mentre in Algeria, il 19 del mese scorso, le forze di sicurezza locali hanno confermato che a seguito dell’incursione per liberare 650 ostaggi nell’enorme complesso di In Amenas gestito da Bp, Sonatrach e Statoil, sono morti almeno 35 ostaggi e 15 miliziani islamici, incluso il loro leader. Tra le vittime 8 algerini e 7 stranieri di cui 2 britannici, 2 giapponesi e un francese.
Per quanto riguarda i rapitori si trattava di 2 algerini, tra cui il leader del gruppo Tahar Ben Cheneb, 3 egiziani, 2 tunisini, 2 libici, un maliano e un cittadino francese. Lo stesso peraltro secondo l’agenzia di stamap ANSA “fa parte di un piano più ampio che, elaborato dall’emiro Moctar Belmoctar, prevede assalti anche ad altri impianti energetici nel Nord dell’Africa”.
Le recenti cronache evidenziano il ruolo crescente della logistica e del coordinamento operative delle cellule jihadiste legate ad al Qaeda che hanno colto il momento propizio rappresentato dalla caduta del regime libico per consolidare le proprie reti finanziarie e commerciali illegali a cui hanno dato una dimensione intercontinentale e conferendo una accelerazione nel flusso di miliziani dall’Asia verso l’Africa ricongiungendosi, in Mali, Nigeria, e gli altri Paesi della costa atlantica, con le reti alimentate dai cartelli della droga colombiani.
Con la stabilizzazione dei teatri operativi afgano e iracheno, e il conseguente graduale ritiro delle truppe sul terreno, l’attenzione si sposta gradualmente verso l’area del Corno d’Africa, una zona di tensione in cui le reti terroristiche muovono capitali e si dedicano ad attività illegali estremamente lucrative quali la pirateria e il traffico di armi ed esseri umani in fuga da zone di guerra o di estrema povertà.
La presenza di Stati in grave crisi politica ed economica consente inoltre agli estremisti di muoversi liberamente attraverso il Mar Rosso e il Golfo di Aden in Yemen, consentendo ulteriori opportunità di collaborare fra i militanti somali di al Shabaab e quelli di al Qaeda nella Penisola Araba secondo una dichiarazione del Gen. James N. Mattis, comandante del U.S. Central Command, al Comitato Difesa del Senato, il primo marzo 2011, sull’assetto del U.S. Central Command.
Il rapporto annuale di Amnesty International ci sottolinea che lo Yemen, il più povero dei Paesi arabi, ospita più di 200.000 rifugiati africani, provenienti in gran parte dalla Somalia, con un incremento significativo dovuto alla siccità, alla fame e al perdurare delle tensioni politiche.
Le milizie salafite hanno guadagnato il controllo di ampie aree del Paese fra le quali numerose città e villagi in Abyan, compresa la capitale del governatorato, Zinjibar, dopo il forzato esilio del Presidente. Durante il loro governo, sono stati responsabili di abusi e violazioni dei diritti umani attarverso le loro “corti religiose”.
Mentre era possibile osservare questi fatti Ansar al-Shari’a manteneva saldamente il controllo del potere locale con minaccie, intimidazioni e l’imposizione di un codice sociale e religioso repressivo.
Nell’analizzare i fenomeni migratori, della pirateria e del terrorismo, lo Yemen è spesso considerato in una limitata prospettiva mediorientale o araba, trascurando la sua vicinanza geografica con il Corno d’Africa, il Mar Rosso e altre realtà con le quali condivide storia, cultura e relazioni economiche.
In un quadro più generale, il triangolo del terrore rappresentato da Sudan, Somalia e Yemen ha costituito una grande preoccupazione per le democrazie occidentali e per la comunità internazionale, come anche la grande sfida della potenza sciita iraniana di accreditarsi come potenza regionale, destabilizzando i Paesi del Golfo e minando l’economia mondiale la cui dipendenza energetica da questi paesi è indiscussa.
I tre paesi che insistono in un’area geografica strategica per l’Occidente, quale quella a cavallo dello stretto di Bab el Mandab, una volta affrancati dalle potenze coloniali hanno vissuto guerre civili e difficoltà economiche che hanno lasciato ampi spazi a economie di guerra e a sistemi politici corrotti e autoritari: un terreno fertile per il seme del fondamentalismo e per flussi finanziari difficilmente controllabili.
E in Yemen le armi abbondano, come dimostra la recente notizia pubblicata da Osservatorio italiano secondo la quale una nave che trasportava 180 tonnellate di armi e munizioni di produzione della Serbia e caricate in Montenegro, è stata fermata dalle autorità yemenite del Porto di Al Mukalla
Nel Corno d’Africa, dunque, le forze etiopi hanno attaccato ripetutamente gli ultimi mesi del 2012 molte basi dei miliziani di al Shabab nella regione Bay nella Somalia meridionale, poichè vogliono aprire la strada da Baidoa alla capitale, Mogadiscio.
Reuters riportava, nello stesso periodo, che i militanti Somali legati ad al Qaeda, scalzati dalle loro roccaforti nel Sud, si stavano muovendo verso Nord, nella provincia semi-autonoma del Puntland, che fino a qualche tempo fa’ era una area relativamente tranquilla.
La regione è ricca di risorse e le compagnie petrolifere investono risorse finanziarie per garantirsi lo sfruttamento dei potenziali bacini sulla terrraferma e offshore.
Il numero di militanti nell’area è ancora limitato, ma le autorità locali temono che al Shabaab possa consolidare il controllo del flusso di armi che attraversano il Golfo di Aden.
“La loro presenza è in generale aumento da quando le forze internazionali le ha sollecitate nel sud. I combattenti provengono dal sud,” lo ha affermato il Presidente del Puntland, Abdirahman Mohamud Farole, a Reuters nel mese di novembre dello scorso anno.
Questa mobilità estrema di dirigenti e militanti del terrore e la conseguente loro aggressività economica, finanziaria e militare costituisce una grave minaccia per le democrazie europee.
Le diplomazie europee, ancora distratte dalla crisi economica e da una lenta attuazione del processo di Lisbona, dovrebbero fare di più per sostenere i governi locali a riaffermare la propria autorità e più incisiva dovrebbe essere l’azione dall’Unione Europea, come attore globale, nella prevenzione delle crisi regionali e, più in generale nell’attuazione della propria strategia di sicurezza se non vorrà trovarsi a gestire crisi regionali con la forza.
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