Sulla criminalità e la pericolosità degli emigranti sono circolate da sempre leggende e dati statistici allarmanti non corrispondenti sempre al vero, come quelli riguardanti gli italiani a cavallo tra il XIX ed il XX secolo.
– di Tindaro Gatani –
Gli italiani rozzi e delinquenti
Nei decenni a cavallo tra il XIX ed il XX, gli emigranti italiani erano automaticamente ritenuti responsabili anche di furti e di fatti di sangue i cui autori erano rimasti sconosciuti. Così in Svizzera, in Francia, negli Stati Uniti d’America e in tanti altri Paesi, essi si trovarono spesso ingiustamente accusati di reati e delitti che non avevano mai commesso. Così rapine, ferimenti, latrocini, ai quali la polizia non riusciva a dare un nome ed un cognome agli autori, venivano con faciloneria addossati ai soliti italiani. Certo, tra i nostri emigrati c’erano tanti scrocconi, tanti parassiti, gente che era sfuggita alle patrie galere, ma si trattava, però, di un numero sparuto di individui nella grande massa di lavoratori. La tanto sbandierata delinquenza degli immigrati italiani spesso non superava tuttavia in percentuale quella di altri gruppi di emigrati, né quella degli stessi residenti. A mettere le cose a posto dal punto di vista statistico, ci pensò Giuseppe De Michelis (1872-1951), futuro senatore del Regno d’Italia e politico italiano, che, dopo aver frequentato la facoltà di medicina a Ginevra, intraprese la carriera di diplomatico, occupandosi dell’emigrazione italiana in Svizzera, dove, allora, ad ogni primavera giungevano decine di migliaia di italiani in cerca di lavoro. La nostra comunità era costituita di regola di soli uomini. Non tutti riuscivano a trovare lavoro. Senza assistenza. Respinti anche dalla nostra colonia permanente, senza alcun diritto di poter attingere ad alcuna prestazione, molti di loro erano costretti ad arrangiarsi, a vivere alla ventura in continua attesa di un posto di lavoro qualsiasi. Molti dilagavano per le campagne circostanti. Piccoli furti erano all’ordine del giorno. La concorrenza con gli operai indigeni ed i gruppi di altre nazionalità portava a continue incomprensioni, mugugni, liti. Frequenti erano le risse tra i nostri stessi connazionali, tra italiani ed alsaziani, tra italiani e svizzeri. In diverse di quelle occasioni fece la sua comparsa il coltello. Fu così che agli italiani fu ben presto affibbiata la qualifica di Messermörder (assassini col coltello). A tratteggiare il clima di caccia alle streghe, esistente soprattutto a Zurigo, nei confronti della nostra comunità basta ricordare, uno per tutti, il caso Albertini. Nell’autunno del 1894 nella città della Limmat venne trovata strangolata una bambina di appena quattro anni. Dopo molte ricerche riuscite infruttuose fu stabilito un premio per chi avesse scoperto l’assassino ed allora fu da una donna denunciato come tale il nostro connazionale Marcellino Albertini, di 52 anni, fruttivendolo e venditore di castagne, residente a Zurigo da oltre vent’anni e da tutti conosciuto per la sua onestà. L’Albertini fu arrestato e fatto segno al disprezzo e all’ira di tutti, mentre la stampa prendeva occasione da questo fatto per coprire di nuove invettive non solo il presunto assassino, ma tutta la comunità italiana. L’aria di Zurigo stava diventando irrespirabile per i nostri lavoratori. Ma alla fine, l’Albertini fu completamente scagionato e rimesso in libertà per non aver commesso il fatto.
La sommossa antitaliana di Zurigo
Ad offendere maggiormente la nostra comunità era stato soprattutto il silenzio su quella scarcerazione da parte di quella «stampa malevola» che si era distinta nell’accusa e nella calunnia. Mentre la colonia italiana e la maggioranza degli zurighesi cercavano di tessere nuovi e migliori rapporti tra le due comunità, non mancarono, per tutto l’inverno e la primavera del 1896, episodi e fatti che vennero a peggiorare la situazione. Da una parte agivano gli elementi più sconsiderati tra i nostri emigrati, dall’altra l’intolleranza degli operai locali che, oltre alla concorrenza, mal sopportavano l’invadenza dei colleghi venuti dal sud. Tra i due gruppi un ruolo tutto particolare giocavano altre minoranze di emigrati. La goccia che fece traboccare il vaso venne a cadere nella notte tra il 25 ed il 26 luglio 1896. Gli abitanti della Feldstrasse, situata al centro di Zurigo-Aussersihl, furono svegliati da alcuni colpi di pistola. Nella strada era scoppiata l’ennesima furibonda rissa tra italiani e svizzeri. La gente accorse a curiosare ma anche a dar man forte agli uni o agli altri. Arrivò anche la polizia. Al fuggi-fuggi generale non prese parte un arrotino alsaziano, un certo Remetter, ucciso a coltellata al petto. Quello che successe a Zurigo nelle tre giornate che seguirono passò alla storia sotto il triste nome di Italienerkrawall (insurrezione antitaliana). Si aprì la caccia all’italiano strada per strada, casa per casa, con il fermo proposito di liberare la città dai Tschinggen (zingari) e dai Messerhelden (eroi col coltello). Mentre i nostri operai fuggivano verso le colline ed i paesi vicini, negli impeti di rabbia e di odio veniva demolito tutto ciò che era italiano: negozi, ristoranti, baracche, case. Solo l’intervento dell’esercito porterà alla calma ed al ritorno dei nostri operai. Ad alimentare la leggenda della criminalità degli italiani in emigrazione contribuivano intanto i fatti eclatanti perpetrati da alcuni nostri anarchici. La paura degli anarchici in Svizzera sul finire dell’Ottocento era tale che furono emanate delle leggi rigorose per consentire il loro allontanamento dai tutti i territori della Confederazione, una per tutti ricordiamo la loro cacciata dal Ticino, celebrata dalla canzone popolare Addio Lugano bella (1895), di Pietro Gori (Messina 1865-Portoferraio 1911. Nonostante i fatti eclatanti (le uccisioni del presidente francese Sadi Carnot, il 24 giugno 1894, a Lione, da parte dell’anarchico italiano Sante Caserio; dell’imperatrice Sissi, 10 settembre 1898, a Ginevra, da parte di Luigi Lucheni e di re Umberto I di Savoia del 29 luglio 1901, a Monza, per mano di Gaetano Bresci) e l’applicazione di leggi speciali, gli anarchici italiani non costituirono mai un pericolo per l’ordine pubblico nei paesi d’immigrazione, né diedero mai luogo a manifestazioni violente sia sul lavoro che nelle dimostrazioni pubbliche che solevano fare per protestare contro coloro che essi ritenevano gli oppressori. La cronaca di tutti i giorni e la fama di terroristi che derivava dagli attentati anarchici faceva di centinaia di migliaia di emigranti italiani onesti il bersaglio preferito dei benpensanti, portando a tante sollevazioni contro di loro oltre che in Svizzera anche in Francia. Negli Stati Uniti d’America non furono pochi i linciaggi e le impiccagioni senza processi dei quali furono vittime tanti italiani innocenti.
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Attenti alle statistiche
Giuseppe De Michelis, nella sua relazione ufficiale del 1903 affrontava il problema della criminalità degli italiani in Svizzera, con estrema competenza, facendo un’analisi rigorosa ed arrivando a conclusioni che poi furono oggetto di studio anche da parte di alcuni ricercatori locali. Ma sentiamo le sue argomentazioni: tutti parlano della grande criminalità fra i nostri emigranti, come di un fatto acquisito. Appena viene commesso un delitto, un furto un’azione riprovevole, si pensa all’italiano quale autore del misfatto. La povertà di parecchi spiega la frequenza dei piccoli furti: gli indigeni vi ricorrono in minor proporzione, anche per la diversità della condizione economica. Mi sembra, come fu fatto opportunamente rilevare, che si esageri alquanto, quando si vuol paragonare la criminalità degli italiani emigrati a quella degli svizzeri. La differenza delle rispettive occupazioni professionali e della condizione economica sono due fattori che dovrebbero pesare nella compilazione delle statistiche. Si troveranno, in proporzione, parecchi italiani fra i condannati per taluni delitti; ma, viceversa, se ne troveranno pochissimi fra i colpiti da condanne d’altro genere, come per bancarotta, appropriazione indebita, ecc. Gli italiani condannati nella Confederazione a pene detentive non inferiori a 24 ore di carcere erano passati da 254 nel 1891 a 981 nel 1901. Secondo i suoi calcoli la media della delinquenza degli italiani. Per il 1891 su 55.171 emigranti italiani si erano registrati 254 condanne pari ad una percentuale di 0,46; nel 1900 su 95.043 emigranti i condannati erano stati 946 con una percentuale di 0,99. Negli ultimi dieci anni la media della criminalità degli italiani risultava, dunque, dello 0,60 per cento della emigrazione annua totale, la quale ascendeva a 130.000. E questo, contando anche le condanne di sole 24 ore di prigione. Perciò francamente, gli allarmisti avevano torto. Dallo specchietto allegato alla relazione si ricava che nelle carceri svizzere c’erano rinchiusi nel 1892, anno al quale risaliva l’ultima statistica ufficiale, 1629 svizzeri e 187 stranieri di cui 44 italiani. Per il reparto femminile scontavano una pena carceraria 358 svizzere e 27 straniere di cui nessuna italiana. Nel corso del 1901, per esempio, nelle carceri svizzere erano entrati 458 italiani. Si trattava di una cifra che comprendeva anche detenuti soltanto per qualche giorno, o per misura preventiva, o perché dovevano essere estradati. Dalla relazione del De Michelis risulta dunque che la criminalità dei nostri emigranti, nonostante tutto, non era poi eccessiva, considerando il numero imponente di italiani che si riversavano sul territorio svizzero. Per il 1903 si calcola che erano intorno a 150 mila i nostri connazionali presenti nella Confederazione. Merito di De Michelis fu quello di aver posto la questione di metodo: bisognava redigere le statistiche sugli immigrati senza confrontarle mai con l’intera popolazione dei residenti, ma solo con quella sezione di persone dello stesso sesso, età e condizione sociale. Se si procede secondo questo metro anche oggi come allora la percentuale di criminalità tra gli immigrati non supera mai quella con i residenti se non risulta spesso anche inferiore!