(Amman, Giordania – di Clara Salpietro) – Per capire la situazione politica della Giordania bisogna rispolverare la sua storia, anche perchè la Giordania è una nazione che si è formata solo al termine della Prima Guerra Mondiale a seguito dei successi conseguiti dalla dinastia Hashemita nella guerra di liberazione contro i Turchi ottomani.
Oggi la Giordania è un Paese moderno che non ha ancora risentito della “primavera araba”, ma all’interno del Paese e anche del governo non mancano le lamentele. I principali problemi indicati dalla società civile sono i limiti allo sviluppo dei partiti politici e l’istituzione di un sistema veramente rappresentativo, in quanto fino ad oggi il metodo “one man, one vote” e la distribuzione dei distretti elettorali ha favorito le aree in cui è maggioritario l’elemento “transgiordano”, a scapito di quello di origine palestinese.
“La situazione in Giordania è calma ma non stabile. Sarebbe un errore pensare che la situazione sia tranquilla, il desiderio di maggiore democrazia c’è anche qui”, afferma l’ambasciatore d’Italia ad Amman, Francesco Fransoni (foto sopra) , che accetta di incontraci nella capitale giordana, gentilmente ci accoglie nella sede dell’Ambasciata e ci racconta del territorio giordano, della situazione politica, dei rapporti, compresi quelli commerciali, con l’Italia e dei rifugiati siriani.
Romano, con alle spalle una prestigiosa carriera diplomatica a cui accede nel 1981, l’ambasciatore Fransoni ha ricoperto la carica di secondo segretario all’Ambasciata d’Italia a New Delhi, primo segretario all’Ambasciata d’Italia a Washington, capo dell’Ufficio Commerciale all’Ambasciata d’Italia a Varsavia, nel tempo ha ricoperto autorevoli incarichi a Roma presso il Ministero degli Affari Esteri, alla Rappresentanza Permanente d’Italia presso la Nato a Bruxelles e nel dicembre del 2008 è stato nominato Ambasciatore d’Italia ad Amman. Sottotenente di complemento della Guardia di Finanza, ha pubblicato tre libri dedicati all’economista tedesco Werner Sombart, all’Identità nazionale italiana e alle Privatizzazioni nell’Europa centro-Orientale dopo il 1991.
“Il territorio della Giordania – spiega l’ambasciatore Fransoni – è, per così dire, ricavato dai Paesi che lo circondano. Anche se si tratta di terre dove l’Uomo è presente da 8.000 anni, la Giordania come tale in antico non esisteva: essa è la parte a Sud della Siria, quella ad Occidente dell’Iraq e le terre ad Est della riva orientale del fiume Giordano. L’elemento fondamentale dal punto di vista politico della Giordania moderna è un ‘patto’ che è stato suggellato ai primi del ‘900 tra la dinastia hashemita e le tribù beduine transgiordane che abitavano nella regione. Il Sovrano hashemita doveva rappresentare e proteggere i beduini e questi a loro volta assicuravano la loro fedeltà al Regno. Un patto che oggi potrebbe essere messo in discussione dai capi delle tribù, se venissero meno certe condizioni che assicurano loro il controllo del Paese. Al momento in Giordania non esiste nessuna richiesta di cambio di regime, qui nessuno vuole una Repubblica. In Giordania il Re è il Re, per gli hashemiti non è mai esistita né esiste una fronda interna, il Sovrano è il capo supremo della famiglia reale. Ma non è escluso che in futuro si possa decidere diversamente. Le tribù beduine transgiordane sono la spina dorsale del Paese e controllano l’esercito, le forze dell’ordine, i servizi segreti (Mukhabarat), l’alta amministrazione e il Parlamento e ci sono pochi dubbi sul fatto che, se sentissero realmente minacciata la loro posizione di predominio, non resterebbero con le mani in mano. E’ evidente che si tratta di una questione delicatissima ed è stato sufficiente che su qualche blog apparissero riportati i nomi di altri membri della famiglia reale come eventuali candidati alla successione di Abdallah II al posto dell’attuale Principe ereditario, il giovanissimo Hussein II figlio dell’attuale Sovrano, per far finire agli arresti per due settimane i malcapitati”.
La Primavera araba qui non è ancora arrivata, o meglio non è arrivata come in Egitto o in Tunisia. Ma quel che è accaduto nei Paesi vicini ha avuto certamente un impatto su questa opinione pubblica ed anche in Giordania si è rilevato un malessere popolare crescente, soprattutto da parte dei giordani di origine palestinese, che rappresentano oltre il 50% della popolazione giordana, e degli islamisti, i primi fortemente sottorappresentati in Parlamento e nelle istituzioni, mentre i secondi non sono neppure presenti in Parlamento. In base a quanto accaduto altrove con la primavera araba, “anche qui ed anche tra i transgiordani c’è chi vorrebbe avere uno Stato più democratico ed avere più voce in capitolo”.
I giordani palestinesi, pari ad almeno la metà della popolazione, sono esclusi dalla stanza dei bottoni ed è del tutto strumentale, osserva il diplomatico, l’accusa mossagli dai cosiddetti “lealisti” beduini trangiordani di non essere, appunto, “leali cittadini del Regno hashemita”. I giordani di origine palestinese da oltre 40 anni vivono in Giordania dove si sono sempre comportati bene e sono sempre stati grati al Regno per avere dato loro una cittadinanza, un passaporto, un tetto e un lavoro: “Non esiste un ‘irredentismo’ palestinese in Giordania, non c’è traccia di un loro ‘nazionalismo’, di palestinese qui non c’è nulla, neppure una testata giornalistica, clandestina o meno. Non dimentichiamo inoltre che né i giordani di origine palestinese, né i palestinesi della West Bank vogliono fare della Giordania la Palestina. La Giordania è la Giordania, la Palestina è la Palestina”.
Questa situazione deriva in larga misura dall’attuale legge elettorale che ha consolidato questo assetto del potere. “Nel 1993 Re Hussein – racconta l’ambasciatore italiano – cambiò la legge elettorale proprio per indebolire gli islamisti, ostili al Trattato di Pace che egli si accingeva a concludere l’anno successivo con Israele, e introdusse quella attuale con il sistema ‘one man, one vote’, che vuol dire una sola preferenza, un meccanismo che, in un Paese con una società a forte caratterizzazione tribale, favorisce i legami clanici piuttosto che l’affiliazione politica e ideologica. Oggi le autorità governative dicono che in Giordania non ci sono partiti, ma fin dagli anni ‘50 i partiti c’erano ed erano fiorenti e lo erano ancora quando nel 1988 la Giordania ha reciso i legami con la West Bank dopo l’occupazione israeliana del 1967 con la Guerra dei Sei Giorni. Il secondo fattore che ha minato il sistema dei partiti in Giordania è stato la definizione delle circoscrizioni elettorali in favore delle tribù transgiordane. In concreto, con le attuali circoscrizioni 50 mila voti ad Amman eleggono un deputato, ma bastano 5 mila voti nelle zone semi-desertiche e rurali dove abitano i beduini per eleggere sempre un deputato. Con il ‘one man, one vote’ e con delle circoscrizioni elettorali così sbilanciate si ha quindi una Camera composta in larga misura da deputati ‘indipendenti’ che di fatto sono dei notabili espressione delle tribù. Una Camera che, inoltre, è dominata da elementi iperconservatori; tant’è che il Re più di una volta ha cercato di eliminare determinate parti del codice penale giordano, originate da usanze tribali più che islamiche, come ad esempio il delitto d’onore, senza però riuscire a superare l’opposizione del Parlamento”.
Con questa legge elettorale il Parlamento non riflette l’intera società giordana, i giordani di origine palestinese sono appena il 13% dei suoi membri e gli islamisti, che hanno partecipato alle elezioni del 2007, hanno però boicottato quelle del 2010 in ragione della legge elettorale ora descritta. Il mantenimento di questa legge elettorale “one man, one vote”, confermata con poche modifiche di facciata anche lo scorso luglio, ha lo scopo precipuo di tenere fuori dalle istituzioni islamisti e giordani di origine palestinese, entrambi presenti soprattutto nelle maggiori città e non nelle zone reali semi-desertiche abitate dai beduini transgiordani, con il pretesto della loro supposta scarsa lealtà al Regno: secondo gli ambienti tribali, infatti, se islamisti e giordani di origine palestinese, in ragione della loro prevalenza demografica, arrivassero a controllare il Parlamento, potrebbero proclamare lo stato della Palestina, facendo dei transgiordani degli stranieri in patria.
“Il carattere strumentale di queste affermazioni è fin troppo evidente, rileva Fransoni. E’ vero che anche in questo Paese come in tutto il mondo islamico i costumi musulmani negli ultimi 20 anni si sono irrigiditi, sono aumentate le donne velate ecc, ma in questi 4 anni che risiedo in Giordania non ho mai assistito a episodi di intolleranza, oppure a episodi di violenza da parte degli islamisti”.
Inoltre, aggiunge l’Ambasciatore, gli Islamisti in Giordania, stando alla definizione di un noto storico, sono stati sempre ‘il partito del trono’, non sono mai stati un partito sovversivo, rivoluzionario, antiregime, ed anche in circostanze drammatiche del Regno di Giordania (al tempo dei nazionalismi arabi, di Nasser, delle vicende del Settembre Nero del 1970) hanno sempre sostenuto la monarchia hashemita. A differenza che in Egitto o in Siria, il Fronte Islamico d’Azione (Islamic Action Front), espressione politica dei Fratelli Musulmani in Giordania, è un partito che ha un programma democratico impeccabile, limitandosi ad invocare una monarchia veramente costituzionale, un Senato eletto e non di nomina regia come avviene attualmente, un Parlamento che sia espressione dell’opinione pubblica e dei partiti che la rappresentano, un Governo che sia espressione di una maggioranza parlamentare e non guidato da un notabile scelto dal Re. Gli islamisti mirano inoltre a riequilibrare i distretti elettorali in base al numero degli abitanti, garantendo a ciascun elettore un peso uguale al voto, indipendentemente da dove esso risieda. Questo non è certo un programma sovversivo, ma democratico e perfino moderato.
“In questa situazione – illustra l’Ambasciatore d’Italia – in cui il Primo Ministro è solo un notabile nominato dal Re senza nessuna legittimità e senza alcun mandato elettorale, nel novembre del 2009 il Re scioglie il Parlamento, promettendo una legge elettorale ispirata ai più alti criteri di trasparenza e rappresentatività. In realtà per un anno si continua a governare per decreto. A maggio 2010 viene messa a punto la legge elettorale, apportandovi qualche ritocco marginale, ampliando le ‘quote rosa’ e l’elettorato viene mandato a votare con una legge di fatto fotocopia di quella già esistente”.
Nel novembre 2010 si sono svolte le elezioni per la XVI Camera dei Deputati del Parlamento giordano. Oltre 1 milione e 255 mila persone (ufficialmente pari al 53% degli aventi diritto, ma secondo il Centro nazionale per i diritti umani giordano si è trattato del 40%) si sono recate alle urne per eleggere i propri rappresentanti alla Camera. La Giordania ha un sistema bicamerale: a fianco della Camera dei Deputati, eletta dal popolo, c’è il Senato di nomina regia. La nuova legge elettorale la quale, annunciata ai più alti livelli come un decisivo passo in avanti sulla strada della riforma democratica dello Stato, si è rivelata, per la maggior parte dell’opinione pubblica, come una delusione. Due o tre settimane dopo viene infatti approvata la legge finanziaria con 111 voti su 119, una maggioranza ‘bulgara’ che squalifica irrimediabilmente il Parlamento appena eletto agli occhi di un’opinione pubblica che si è sentita presa in giro. Nel frattempo, però, siamo a gennaio 2011, prima in Tunisia e poi in Egitto ha inizio la primavera araba. Sulle quali si inserisce anche una crisi economica pesante, la bilancia commerciale giordana, già cronicamente in perdita non solo con Paesi industrializzati come la Germania o Italia, entra in profondo rosso, e dall’Egitto si interrompono le vitali forniture di gas che mettono in gravissima difficoltà l’economia nazionale. Il 14 gennaio 2011, quasi in contemporanea con le altre manifestazioni nei vicini Paesi arabi, ad Amman ci sono le prime rimostranze popolari, a cui fanno seguito proteste sempre più vibranti e massicce, prima il 28 gennaio e poi il 24 marzo, quando alcuni manifestanti sono stati attaccati da simpatizzanti del regime. La manifestazione è stata organizzata da un gruppo di giovani che si fa chiamare “Youth of March 24“, ai quali si sono uniti anche universitari, alcuni militanti di sinistra e membri dell’Islamic Action Front (IAF).
“Le prime manifestazioni di protesta – ci dice l’Ambasciatore Fransoni -, anche se non aggregheranno mai masse veramente imponenti come negli altri Paesi della regione, vedono però scendere in piazza, ad Amman e nelle principali città del Paese, alcune migliaia di persone. Il Re prende immediatamente dei provvedimenti, dimette il primo ministro Samir Rifai, nomina al suo posto un ex generale dell’esercito, gradito ai servizi di sicurezza e che era stato primo ministro nel 2005-2007, il senatore Marouf Bakhit, noto altresì per la sua ostilità nei confronti di islamisti e palestinesi; elargisce circa 500 milioni di euro per sussidi a pioggia e promette riforme”.
In febbraio nasce la Commissione nazionale del dialogo, presieduta da una personalità prestigiosa e di moralità indiscussa, come il Presidente del Senato Taher El Masri, che ha il compito di preparare delle raccomandazioni per la riforma della legge elettorale e della legge che regola la vita dei partiti. I 52 membri chiamati a far parte della Commissione sono però tutte scelti dal Re e dalla Corte, vi sono soltanto 4 donne, ma non ci sono rappresentanti della maggior parte della popolazione, quella che chiede le riforme, ossia i giovani (il 70% dei giordani è sotto i 30 anni) e dei giordani di origine palestinese. Malgrado questi forti condizionamenti, la Commissione Masri presenta nel maggio del 2011 una proposta di una nuova legge elettorale che, seppur non certo “rivoluzionaria”, viene interpretata come un incoraggiante passo in avanti. Ma non accade nulla, e la proposta Masri finisce in un cassetto.
Nel frattempo viene nominata anche una Commissione per le modifiche della Costituzione presieduta da un anziano e rispettato giurista, che introduce delle positive novità che però non intaccano il potere del Sovrano. Ad esempio si prevede la nascita di una Corte costituzionale, alla quale però potranno porre quesiti solo il Governo ed il Parlamento, con i suoi giudici nominati tutti dal Re. Inoltre viene prevista la nascita di una Commissione elettorale indipendente (sottraendo la materia al Ministero dell’Interno), presieduta dall’ex inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Khatib, una personalità rispettata; la Commissione è però priva di autonomia finanziaria e fino a due mesi fa stava ancora cercando una sede.
“Il compito della Commissione – osserva Fransoni – non è certo facile, trattandosi di un organismo da costituire dal nulla. Le precedenti elezioni si sono svolte con 14 mila scrutatori e si tratta quindi di formare un personale numeroso e specializzato, altrimenti bisogna mettere quelli che c’erano prima”. Con il rischio che si ripetano quegli episodi di manipolazione riscontrati nelle ultime elezioni.
La Giordania è una democrazia controllata, nella quale i Servizi esercitano un ruolo di primo piano. Tuttavia, a differenza dei Paesi della regione prima della Primavera araba, non è mai stata una dittatura. Nessuno potrebbe mai dire che Hussein o Abdallah sono dei “tiranni”: la Giordania, osserva l’Ambasciatore, è un Paese dove esiste una invidiabile libertà religiosa e dove la gente non scompare di notte.
“Oltre ad un margine di libertà politica e di espressione – aggiunge l’Ambasciatore Fransoni -, di rispetto dei diritti umani e della tolleranza religiosa che non aveva uguali nel mondo arabo, almeno fino alla Primavera Araba, gli Hashemiti non hanno mai permesso forme di intollerabile sperequazione economica come è accaduto in altri Paesi dell’area”. Sebbene il Paese abbia sempre dovuto fare affidamento all’assistenza dall’estero, gli aiuti ricevuti sono stati anche distribuiti alle masse: “il Paese è povero ma non c’è miseria, nessuno soffre la fame; in Giordania tutti hanno un tetto, i bambini vanno a scuola e l’assistenza sanitaria di base c’è ovunque”.
Come si sono evoluti nel tempo i rapporti bilaterali tra Italia e Giordania?
Dal punto di vista politico noi abbiamo avuto sempre rapporti molto stretti con la Giordania, rafforzati in questi anni dalla visita dei rispettivi Capi di Stato. Nel 2009 c’è stata la visita in Italia del Re Abdallah II e della Regina Rania, ad aprile scorso il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e la Signora Clio sono stati in visita tre giorni in Giordania.
Il Re ha avuto la possibilità di raccontare le sue visioni sulla situazione in Siria e parlare della strada delle riforme che intende intraprendere. In quella occasione il presidente Napolitano ha trasmesso un messaggio di democrazia al Re di Giordania, in pratica il Capo dello Stato ha espresso il suo compiacimento per l’andamento delle riforme ma ha anche invitato il Re “a fare di più”. Il Capo dello Stato ha detto che la stabilità di un Paese non consiste nel “congelamento dell’esistente”, ma in uno sforzo dinamico volto ad “includere nelle istituzioni tutte le componenti della società di un Paese”, di modo che esse siano adeguatamente rappresentate ed abbiano tutte voce in capitolo nella gestione della cosa pubblica. L’Italia ha sempre cercato di sostenere un’evoluzione in senso democratico del Paese e quest’azione viene condotta di concerto con l’Unione Europea. Dal punto di vista economico questo è un paese a reddito medio-basso, un mercato alquanto limitato, nel quale vi sono pochi investimenti italiani, ma che presenta delle opportunità importanti dal punto di vista commerciale, naturalmente solo nella capitale Amman. Se nel 2010 l’Italia occupava l’ottava posizione tra i fornitori del Regno a livello mondiale e la seconda tra i paesi dell’Unione Europea, nel corso del 2011 l’Italia è diventata il principale fornitore europeo della Giordania ed il quarto a livello mondiale. La mia missione in questo Paese – afferma l’Ambasciatore Fransoni – è prevalentemente politica, date le caratteristiche geopolitiche di un Paese come la Giordania da sempre inserito nel cuore di un’area di precipuo interesse italiano, a maggior ragione ora in questa fase di “risveglio arabo” nella regione. Tuttavia, la sua posizione geografica e le favorevoli condizioni fanno sì che Amman si presti agevolmente a fungere da hub regionale. Sono infatti numerose le aziende, anche italiane, che vi hanno stabilito il loro quartier generale. I servizi sono buoni, i telefoni funzionano, non vi sono particolari contenziosi commerciali, l’aeroporto è vicino e funziona, le strade sono pulite ed ordinate, c’è sicurezza.
E’ possibile tracciare un bilancio delle esportazioni italiane in Giordania?
La presenza economica italiana si caratterizza più sotto il profilo commerciale che sotto quello degli investimenti produttivi. L’interscambio bilaterale conferma il crescente progresso delle relazioni commerciali e l’eccellente dinamismo del Made in Italy sul mercato giordano. In base ai dati ICE/Istat disponibili per l’anno 2011 si evidenzia un incremento vertiginoso del nostro export di oltre il 49% (con 628 milioni di euro, che rappresentano più del 91,5% dell’interscambio bilaterale), mentre le importazioni sono diminuite del 6,5%. Ne deriva un’aumento del saldo commerciale a nostro favore, pari a oltre 570 milioni di euro. Le statistiche giordane relative al 2011, seppur in parte discordanti rispetto a quelle italiane, confermano l’Italia tra i principali partner del Regno. Secondo il DoS le importazioni italiane superano i 49,3 milioni di dinari, consolidando l’Italia quale primo mercato di sbocco tra i partner europei, ma soprattutto si evidenzia il primato italiano tra i fornitori europei del Regno, con un valore dell’export pari a circa 684,6 milioni di dinari ed un incremento dell’80,5% rispetto al 2010. Nel 2011 l’Italia ha dunque per la prima volta scavalcato la Germania (554,2 milioni). A seguito della dinamica descritta, la bilancia commerciale bilaterale a fine 2011 vede rafforzarsi l’avanzo a favore del nostro Paese, che supera i 635,2 milioni di dinari giordani.
Quali sono le imprese italiane che investono in Giordania?
La presenza stabile di imprese italiane nel Paese è piuttosto limitata, nonostante un quadro giuridico bilaterale che offre garanzie ai nostri investitori. In particolare nel 2000 è entrato in vigore l’Accordo bilaterale per la promozione e la protezione degli investimenti ed il 2011 è stato il primo anno fiscale di applicazione della Convenzione sulle doppie imposizioni, il cui iter di ratifica si è concluso nel maggio 2010. Attualmente si registra un importante investimento nel settore ITC, con la presenza del gruppo ACOTEL, che ha acquisito interamente la società locale Info2Cell (specializzata in applicazioni e servizi per telefonia mobile) e che punta sulla Giordania per ampliare la propria presenza commerciale nella regione. Meritano di essere segnalate una joint-venture nel settore della produzione di fusti metallici per uso alimentare (Omce Jordan) e due società a capitale italiano nel settore orafo: la GMZ (in partnership con la società Uno A Erre Italia s.p.a.) e la Alessi of Italy (in partnership con l’omonima società italiana), che impiegano circa 450 persone nei tre stabilimenti aperti in Giordania ed esportano negli Usa e in Asia la maggior parte della produzione. Si segnala poi la creazione della ALP Jordan, una joint-venture tra l’omonima società italiana ed un partner giordano del settore delle costruzioni, che ha recentemente inaugurato uno stabilimento produttivo di pannelli per impianti di conduzione dell’aria, con l’obiettivo di fornire il mercato locale e quelli dei paesi limitrofi. Oltre alla presenza di Uffici regionali di alcune società (Prodit Engineering Sas e Cisa s.p.a.), le principali aziende italiane attive nel Paese sono: la Società italiana per Condotte d’Acqua, presente da circa 20 anni; la Ansaldo Energia e l’Alitalia. Per quanto riguarda le principali voci merceologiche dell’interscambio, l’Italia ha importato soprattutto metalli di base preziosi e altri metalli non ferrosi, prodotti chimici di base e fertilizzanti. Dal lato dell’export, oltre ai prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, le principali voci rimangono invariate rispetto al passato e sono rappresentate da gioielli e prodotti di oreficeria, da metalli preziosi e non ferrosi, da macchinari in generale ed apparecchi meccanici ed elettrici, da prodotti medicinali ed articoli in plastica.
Quanto è importante l’Accordo di cooperazione doganale che è entrato in vigore il 1° marzo scorso?
L’Accordo di cooperazione doganale, tra la Repubblica italiana e il Regno hashemita di Giordania, era stato firmato a Roma il 5 novembre 2007 ed è entrato in vigore il 1° marzo 2012. L’accordo prevede la cooperazione nello scambio di informazioni, nelle attività di sorveglianza e nelle indagini avviate dalle rispettive autorità, al fine di rafforzare gli strumenti di lotta contro la frode e il traffico di stupefacenti e semplificare le procedure doganali connesse alle transazioni commerciali. Rendendo più trasparente l’interscambio e agevolando l’attività degli operatori commerciali, l’Accordo si innesta idealmente nella fase di significativa intensificazione delle relazioni commerciali bilaterali alle quali offre ulteriori prospettive di sviluppo. D’altra parte, la cooperazione nel settore doganale rappresenta un dato tutt’affatto nuovo nei rapporti tra i due Paesi. Nel 2007 l’Agenzia delle dogane italiana era stata selezionata quale partner di riferimento nel quadro di un progetto di gemellaggio finanziato dall’Unione Europea, finalizzato a rafforzare le capacità tecniche e amministrative dell’omologo dipartimento giordano nell’ambito dell’Accordo di Associazione Europea, entrato in vigore nel maggio 2002. Il successo dell’iniziativa e l’apprezzamento delle autorità hashemite per l’operato dell’Agenzia delle Dogane italiana aveva gettato le basi per la proficua collaborazione tra i due Paesi, alla quale l’Accordo Doganale fornisce oggi una più precisa cornice giuridica, aggiungendo un nuovo importante tassello alle relazioni italo-giordane.
Come viene gestita la situazione dei profughi siriani da parte della Giordania?
Stando alle cifre disponibili a fine agosto, in Giordania vi sarebbero circa 170.000 sfollati dalla Siria di cui circa 50.000 profughi registrati dall’UNHCR. Mentre nei mesi scorsi le autorità consentivano ai siriani di essere ospitati da parenti ed amici, di comunicare con le famiglie rimaste in Siria, i profughi sono ora concentrati nel campo di Zaatari, vicino al confine siriano, isolati in un’area desertica continuamente battuta da tempeste di sabbia. Anche se non manca qualche dubbio sui numeri forniti, il problema dei profughi e degli sfollati siriani è certamente serio, la Siria confina con la Giordania, la frontiera è facilmente attraversabile, non c’è obbligo di visto. La posizione della Giordania è molto delicata. Dalla Siria e dal porto di Tartus passava l’80% dell’interscambio commerciale giordano. Amman desidera adempiere ai suoi doveri umanitari di ospitalità a chi fugge dalla violenza ma non intende finanziare o consentire il transito di armamenti ai rivoltosi. “Se – osservano le autorità ad Amman – consentiamo di far arrivare le armi alle forze anti-regime, siamo poi sicuri di dove queste armi vadano veramente a finire? Siamo certi che un giorno non verranno puntate contro di noi? Ricordiamoci dei combattenti mujahideen armati dall’Occidente contro i sovietici, ma che poi con i talebani ed al Qaeda sono diventati una minaccia per l’Occidente che li ha armati”. Damasco è a pochi chilometri da Amman ed un MiG ci mette pochi minuti ad essere sopra la capitale giordana. I giordani non hanno certo torto ad essere molto prudenti. Tutti sanno che l’opposizione siriana è molto frammentata e divisa. Se i giordani, che conoscono la Siria meglio di tanti altri, invitano alla prudenza, occorre ascoltarli.
L’ospedale da campo italiano a favore dei profughi siriani è già operativo?
Sì, dal 2 settembre l’ospedale italiano ha cominciato ad accogliere i pazienti. C’è voluto un impegno notevole per raggiungere questo risultato, dato che l’ospedale è stato consegnato alla sanità militare giordana il 15 luglio. A quell’epoca però, non era stato ancora aperto il campo profughi di Zaatari e l’ospedale è stato montato dai tecnici italiani, su richiesta degli stessi giordani, in un’altra area. Quando finalmente le autorità giordane hanno deciso di aprire il 29 luglio il campo di Zaatari, ci si è dovuti impegnare quotidianamente per riuscire a trasferire materialmente l’ospedale a Zaatari, ma alla fine l’ospedale è ora lì. Pensi che, il giorno in cui è stato aperto, in sole 3 ore si sono presentate 62 persone. Ciò probabilmente in ragione del fatto che l’ospedale francese è attrezzato soprattutto per interventi chirurgici e gestito da personale solo francese, che non parla l’arabo, mentre il nostro è stato affidato a personale medico giordano; anche quello marocchino ha incontrato difficoltà ‘linguistiche’ dato che i dialetti del Maghreb risultano quasi incomprensibili alle popolazioni locali. Di conseguenza, vengono tutti a farsi visitare da noi!