(di Clara Salpietro) – Nata a Bombay, in India, ma cresciuta in Italia, dove ha frequentato le scuole e dove continua a vivere, la Principessa India d’Afghanistan accetta di incontrarmi e raccontare la condizione delle donne afgane, spiegare chi sono i talebani, come l’Occidente può aiutare l’Afghanistan e non manca un accenno alle donne afgane impegnate con la boxe.
“Reputo straordinaria la notizia – afferma con un sorriso – che a Kabul c’è una scuola di boxe frequentata da ragazze afgane, che si stanno allenando per partecipare alle Olimpiadi di Londra del 2012. Ragazze che una volta rientrate in Afghanistan probabilmente continueranno ad indossare il burqa”.
A Londra la boxe femminile debutterà come disciplina olimpica e a grande sorpresa, infatti, tra i ring gareggeranno delle volenterose ragazze afghane, che si stanno allenando allo stadio di Kabul e che durante gli incontri indosseranno l’hijab, il velo che rappresenta la loro devozione al Corano.
Nominata nel 2006 ambasciatrice del Governo afgano per la promozione in Europa della cultura e di opere umanitarie, India d’Afghanistan è figlia di Amanullah Khan, il re che governò il paese dal 1919 al 1929 portandolo all’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Amanullah Khan introdusse diverse riforme tese a modernizzare l’Afghanistan, il suo obiettivo era uno stato islamico, moderato e moderno. Alcune riforme, come l’abolizione della schiavitù, l’istituzione dell’istruzione obbligatoria per le bambine almeno fino a 10 anni, la promozione di stili di vita occidentali, l’abolizione dell’obbligo del burqa, rapidamente gli alienarono le simpatie di molti capi tribali e religiosi. Di fronte a una schiacciante opposizione armata, nel gennaio 1929 il re fu costretto ad abdicare, dopo che Kabul era caduta in mano alle forze di Bacha-i-Saqao, un brigante tagiko.
Amanullah e la famiglia ricevettero l’ospitalità dei reali d’Italia, Paese dove si trasferirono e vissero con i loro figli.
Nonostante la vita d’esilio in Italia, la nobildonna instancabilmente è impegnata ad aiutare il suo Paese e il suo popolo, portando avanti progetti per la realizzazione di pozzi d’acqua nei villaggi afghani e opere umanitarie a favore dei più sfortunati.
“L’Afghanistan è sempre nel cuore”, esordisce, “vivrei lì se avessi un lavoro che mi impegnerebbe a favore della popolazione, andare lì solo per fare la ‘signora’ non lo farei. Inoltre per la gente afgana è più importante che io stia in Occidente, da qui posso aiutarli concretamente. Sono 30 anni che in Europa raccolgo fondi, che vengono utilizzati per scavare i pozzi d’acqua oppure per aiutare la gente afgana a pagare importanti cure mediche o delicate operazioni chirurgiche. Posso dire che il Paese più generoso è l’Italia, dove lo scorso anno ho fatto 12 conferenze, da Udine a Marsala. Sono appena rientrata dagli Stati Uniti, dove ho fatto una raccolta fondi in quattro grandi città e dove ho avuto un’accoglienza straordinaria, e sono in partenza per Kabul, dove andrò a controllare dei lavori per la realizzazione di un pozzo d’acqua”.
India d’Afghanistan è vice presidente della Mahmud Tarzi International Cultural Foundation, intitolata al nonno materno, lo scrittore, poeta e giornalista Mahmud Tarzi, da cui probabilmente ha ereditato l’amore per la poesia, tanto che durante i suoi viaggi porta sempre con sé un “libro di poesie e uno di storia”.
Mahmud Tarzi, padre della Regina Soraya Tarzi, madre di India, è conosciuto come il fondatore del giornalismo afgano e come un grande pensatore moderno. Proprio per non dimenticare questa figura chiave nella storia dell’Afghanistan, nel 2005 a Kabul è nata la Fondazione culturale.
Principessa India cosa può dirci della condizione delle donne afgane?
Parlare delle donne dell’Afghanistan è una cosa molto difficile. L’Afghanistan è diviso in 34 regioni e ognuna ha la propria cultura e in ogni cultura c’è la storia delle donne. Nel Sud le donne, specie nella regione del Pashtunistan e del Paktia, sono ancora sotto l’influenza dei talebani e devono portare il velo, quello che voi chiamate burqa e noi chadary. Per quello che ho sentito dire, perché lì non si può neanche andare, le bambine non possono andare a scuola, è una situazione difficile, così come a Kandahar. Nelle campagne la situazione è diversa perché la donna lavora nei campi e non può essere velata altrimenti non vede niente. A Herat, che è la città della cultura ed un tempo era una delle città più belle dell’Oriente islamico, non c’è una grande libertà per le donne. In fondo l’emancipazione della donna sta a Kabul. Nelle regioni del Nord, quelle di tradizione ed etnie turcomanne, la donna non porta il burqa ma non è emancipata, è una donna contadina, che sta in casa. È difficile parlare della donna afgana, che era un po’ emancipata, in tutte le città dell’Afghanistan, negli anni dal 1956 fino al ‘73, lo era poco ma sempre moltissimo in confronto ad oggi. Adesso la situazione è regredita, l’emancipazione non esiste più, anche se vi sono donne ministro, donne deputate al Parlamento, donne governatrici di regioni, ma è un numero davvero esiguo.A Kabul si vedono molte donne senza il burqa, però il burqa non rappresenta niente. Se si pensa al velo tutto intero come un esempio di sottomissione, o sottocultura, allora sono d’accordo, altrimenti la disgrazia delle donne afghane è che non vi sono ospedali, ambulatori come si deve, non vi sono scuole. Quelle sono le disgrazie della donna afghana e dei ragazzi. E poi bisogna avere o meglio formare dei buoni maestri, i muri per realizzare una scuola sono facili da costruire, ma avere buoni maestri è difficile. È difficile far cambiare idea ai vecchi maestri che credono di sapere tutto e non gli si può insegnare niente. I giovani devono imparare qualcosa, ma da chi? da quelli che credono di sapere già tutto? È una cosa difficile. La questione afgana è molto complicata. Di contro ci sono punte di diamante, abbiamo un’ottima governatrice nella regione degli Hazarajat, dove vivono gli Hazara, che sono di etnia mongola. È molto brava ed è conosciuta in Europa, in America, insomma ovunque. Abbiamo medici donne bravissime, ma non sono tante. Dopo 30 anni di guerra, coloro che sono stati formati 30 anni fa ormai sono vecchi e comunque non sono più a Kabul. I giovani ancora non hanno avuto il tempo di formarsi. Quando vado in Afghanistan nelle scuole vedo che le bambine, tutte così carine, hanno il grembiule uguale, è giusto che in un paese dove ci sono ricchi e poveri i bambini abbiano una divisa, così sono tutti uguali. Io andavo in una scuola statale italiana ed era giusto che alla scuola elementare avessi il grembiule bianco con il fiocco blu, perché la mia compagna di classe era figlia di un netturbino, ma a scuola questa diversità sociale non si notava perché eravamo tutte vestite uguali. In Afghanistan l’unica differenza è che alcuni bambini hanno la possibilità di essere accompagnate a scuola con un pulmino, altri invece vanno a piedi.
Com’è considerata la donna afgana all’interno della famiglia?
La donna afgana non è considerata dai propri padri, fratelli o mariti. È brutto che io dica questo, perché parlo male di uomini miei compatrioti, ma è la verità. La povertà fa sì che le famiglie si indebitano e per pagare i propri debiti i padri danno via la propria figlia. Chi presta del denaro non è un giovane ma un vecchio, sono questi ultimi quelli ricchi perché hanno accumulato nel tempo denaro. Quindi si dà una ragazza giovane in sposa ad un uomo vecchio. Nel cortile di un ospedale di Kabul, ricostruito molto bene con fondi italiani, un medico afgano, che lavora con la cooperazione italiana, ha fatto costruire un reparto speciale per quelle persone che si sono date fuoco e la gran parte sono ragazze che non hanno voluto sposare un uomo vecchio. Piuttosto che sposare un uomo vecchio, le ragazze diventano dei mostri e per tutta la vita rimangono così. Poi ci sono i casi di ragazze che scappano da casa perché non vogliono essere vendute e se eventualmente tornano dalla loro famiglia vengono uccise dal padre o dai fratelli. La condizione della donna in Afghanistan è un disastro. Inutile girare intorno al discorso. Queste cose non succedevano prima dell’invasione sovietica. Tutti i guai sono iniziati con l’invasione sovietica, non bisogna dimenticarlo. L’invasione americana di cui si parla tanto c’è stata perché prima c’è stata l’invasione sovietica.
L’aiuto concreto verso le donne afgane è ostacolato dai talebani?
Certo. I talebani impediscono qualsiasi novità che si vuole fare, perché vogliono impoverire, non vogliono che si realizzino delle cose buone, vogliono che il Paese rimanga sempre arretrato perché loro vogliono arrivare al potere. Io sto per partire per l’Afghanistan per far scavare dei pozzi agricoli, ma non posso andare ovunque. Non ho paura, ma se andassi in un posto dove ci sono i talebani, a parte che mi tagliano la testa, non mi farebbero costruire il pozzo, perché è una cosa buona e loro non la vogliono. Per loro il Paese deve rimane nella povertà, perché dove c’è povertà è più facile accattivare le persone e portarle dalla loro parte. Qualsiasi cosa si faccia bisogna stare attenti e bisogna farla solo in posti giusti.
Perché le donne indossano il burqa già a 12-13 anni?
Il burqa non è un indumento afghano e non è neanche un indumento islamico. Durante l’avvento del profeta Maometto il burqa non esisteva, inoltre la legge coranica dice che la donna deve essere coperta con la manica lunga, la veste lunga, il viso scoperto, un velo in testa e le mani libere, la donna deve imparare ad avere la stessa cultura degli uomini. Il burqa è un’invenzione di alcune sette musulmane dell’India del Nord, oggi Pakistan, ed è stato introdotto alla fine dell’800 in Afghanistan. Per quale ragione le donne afgane delle città hanno adottato questo orribile indumento non si sa. Forse anche gli uomini avranno detto alle donne di coprirsi, perché per loro la donna deve stare coperta. Le donne devono sempre rimetterci. Così è entrata questa tradizione straniera in Afghanistan, prima a Kandahar e poi è arrivata anche a Kabul. Altrimenti la donna afgana è vestita con le gambe e braccia coperte, mani, piedi e viso scoperto e un velo in testa. A Kabul le donne afgane che non portano il burqa hanno un velo in testa e sono vestite normali. Anche gli uomini devono avere un certo abbigliamento, ad esempio l’uomo deve portare il pantalone sotto il ginocchio e mai sopra, e una camicia sotto il gomito. Questo perché non bisogna stuzzicare il sesso.
È vero che il burqa preserva le donne dalla violenza?
È possibile. Prima del burqa le donne afghane erano vestite con il loro vestito tradizionale e non venivano assolutamente violentate. All’inizio indossare il burqa era una questione di moda, adesso no. Quando ho chiesto al mio autista a Kabul se la moglie indossava il burqa, lui ha risposto che certamente lo indossava. Quando ho chiesto il perché, ha risposto: altrimenti il vicino di casa cosa dice? Spesso il burqa serve anche perché uno non sa cosa mettersi sotto.
È giusto vietare alle donne che abitano nei Paesi occidentali di indossare il burqa?
Il viso deve essere scoperto perché la donna deve essere riconoscibile, questa è la legge. Paese che vai usanze che trovi. Se vai in Afghanistan tutte le donne anche quelle europee devono mettere un velo in testa, perché è obbligatorio. Tutti devono rispettare questa tradizione che comunque è islamica e non afgana. Nei paesi occidentali bisogna rispettare la tradizione, la cultura e le leggi di questi paesi. Se le donne non vogliono scoprire il viso, allora devono rimane a casa loro.
Cosa può fare l’Occidente per aiutare la popolazione a sconfiggere i talebani?
Non può fare niente. Se i giornalisti vanno dove ci sono i talebani, sono presi e gli accompagnatori afgani sono decapitati, com’è successo tante volte. Si parla del giornalista occidentale che viene liberato oppure no, ma non si parla mai degli afgani che sono stati ammazzati. Non è la società occidentale che può andare lì e fare qualcosa. Può fare qualcosa la diplomazia, oppure un concordato che in fondo vuole dire diplomazia, oppure proseguire con la guerra contro i talebani, ma comunque la guerra, come si è visto fino ad ora, è costosa, comporta perdite di vite umane e si protrae a lungo, infatti la guerra contro i talebani è iniziata nel 2001. Oppure ci si mette d’accordo con loro, che è molto complicato. L’unica possibilità sarebbe quella di mettersi d’accordo con i talebani afgani, dico questo perché i talebani non sono afghani, sono stranieri, sono pochi quelli afgani. Quindi è difficile mettersi d’accordo. Al talebano straniero non gliene importa niente della popolazione afgana, a lui interessa il proprio potere ed arricchirsi.
Da dove arrivano i talebani?
Da molti paesi islamici, anche dal Pakistan. Quando rapiscono un occidentale, le direttive e gli ordini li vanno a chiedere ad un capo che non è un afgano ed ha sempre con sé un interprete. Ha bisogno di una persona che traduca dalla sua lingua in genere araba in altre lingue o in afgano. È lui che stabilisce dove portare la persona rapita e di solito ordina di ammazzare l’autista. Gli afgani non sono al potere dei talebani afgani, gli ordini vengono dati da un capo non afgano. Questo è un problema grosso. Noi abbiamo perso l’indipendenza. Da una parte dipendiamo da questi talebani stranieri che vogliono prendere il potere, dall’altra dipendiamo specialmente da Paesi occidentali.
Ci spiega le varie fasi dei progetti per la realizzazione dei pozzi agricoli che lei porta avanti?
Gli afgani vengono a chiedermi di aiutarli a scavare pozzi agricoli, dopo questa richiesta io vado sul posto e porto con me alcuni tecnici afgani. Io non mi servo degli stranieri, perché costerebbero di più e invece di due pozzi ne faccio uno solo. Mi affido a persone che conoscono le procedure per individuare e trovare l’acqua. La gran parte delle volte sono i contadini stessi che sanno qual è il posto migliore dove scavare. Il più delle volte si rivolgono a me dicendomi: “figlia di Re dove vuoi che scaviamo il pozzo?”. Ma io non so dove è meglio scavare e quindi mi affido a loro per stabilire il luogo. Mi accerto personalmente che il pozzo venga scavato. Dopo 15 giorni vado a controllare e dopo un anno vado a vedere se il territorio è diventato verde oppure è rimasto secco. La terra è buona in Afghanistan, dove c’erano solo arbusti secchi, grazie a questi pozzi, l’anno seguente tutto è diventato verde. L’agricoltura è buona, c’è l’uva e altri frutti. Di solito dopo qualche anno la produzione è così consistente che basta non solo per le famiglie ma viene anche venduta, soprattutto se il terreno non è lontano dalla città. Vicino Herat c’era un grande campo di oppio che è stato trasformato in una coltivazione di zafferano, la cui raccolta è molto più difficile rispetto a quella dell’oppio. Per l’oppio basta che i raccoglitori passano nel campo, tagliano il calice del fiore e raccolgono il liquido. È un liquido che inebria, infatti tutti i raccoglitori cantano. Il lavoro per raccogliere lo zafferano è molto faticoso e lungo, bisogna alzarsi la mattina prima del sorgere del sole e raccogliere o tutto il fiore o solo il pistillo e bisogna curvarsi, mentre per l’oppio no perché la pianta è alta. Per lo zafferano non si devono raccogliere tutti i pistilli, ogni mattina si raccolgono solo quelli fioriti. Con l’oppio il lavoro si fa in tre giorno, con lo zafferano c’è bisogno di più tempo. Il proprietario di questo campo di zafferano vicino Herat non sapeva dove venderlo e mi ha chiesto aiuto. Mi sono data da fare in Italia, dove c’è una buona produzione di zafferano in Sardegna e in Abruzzo, e ho cercato di mettere in contatto i produttori italiani con questo produttore afgano, per fare in modo di inserire sul mercato italiano lo zafferano afgano.
C’è qualcosa che vuole aggiungere prima di concludere l’intervista?
L’Afghanistan è una terra meravigliosa. Io dico sempre e ogni volta che lo ripeto mi commuovo: “non dimenticatevi dell’Afghanistan”.