(di Roberto Falaschi) – Il problema del rientro in Italia degli ex re d’Italia andrebbe analizzato sotto vari aspetti. Anzitutto va considerato che si tratta di cittadini italiani deceduti all’estero, ed in quanto tali, sarebbe ipotizzabile una loro tumulazione sul suolo nazionale senza alcuna difficoltà, ma con la semplice autorizzazione del comune di sepoltura ed il passaporto mortuario rilasciato dalle Autorità Diplomatiche o Consolari.
Comprendo, pur non condividendo, che talune forze politiche possano opporsi a tale procedura per gli ex re, ma quale colpa potrebbe mai essere attribuita alle ex regine per impedirne il rientro in Italia da decedute?
Chiarito che il rientro in Italia delle quattro spoglie dovrebbe andare de plano e non come avvenuto per i resti d Vittorio Emanuele III e Regina, il punto da discutere potrebbe essere se tumularli al Pantheon oppure al Santuario di Vicoforte a suo tempo edificato al fine di contenere le tombe dei Savoia. Poiché però fu a suo tempo stabilito che i sovrani del Regno d’Italia dovessero riposare a Roma, sembra opportuno esaminare se alcuno dei due ultimi non meriti tale sorte.
Ora, dato che da decenni infuria la tempesta sulla destinazione finale degli ultimi due Sovrani italiani e delle rispettive consorti, esaminiamo il caso di Umberto II° che regnò unicamente un mese.
Il rigore della logica vorrebbe che non ci dovrebbero essere discussioni al riguardo essendo egli giunto al trono per abdicazione del padre al termine del conflitto. Ne consegue che non può che essere estraneo a giudizi storici su vicende che precedono qualsiasi suo coinvolgimento attivo con il potere. Quando assunse le prerogative regali, prima come Luogotenente del Regno e poi per un mese come re, ebbe un comportamento ineccepibile.
Il suo principale impegno fu quello di avviare, fra infiniti ostacoli ed avversità, la ricostruzione materiale e soprattutto morale della Nazione. Ciò, a detta di quanti vissero non faziosamente quegli anni, con correttezza, impegno e dedizione. Pertanto il suo comportamento all’epoca appare meritorio del massimo rispetto.
La sua sepoltura, unitamente alla Regina Maria José, al Pantheon, non dovrebbe quindi essere posta in discussione. Appare altresì ingiusto far pesare su di lui eventuali colpe del padre, che comunque andrebbero contestualizzate e ben vagliate, come si conviene ad ogni accusa.
Colui cui vengono addossate tutte le possibili colpe è Vittorio Emanuele III. Egli viene costantemente e solamente ricordato per aver dato l’incarico di governo a Mussolini nel 1922 e per la firma delle leggi razziali nel 1938, oltre alla “fuga da Roma”. Pertanto, in 46 anni di regno sembra non aver svolto alcuna altra attività di Capo di Stato, ma ciò appare oltremodo riduttivo.
Era un sovrano alquanto volitivo che non subiva facilmente limitazioni alle sua regali prerogative, sia in ambito nazionale che internazionale. Dette prova di durezza nei confronti degli alleati a seguito del successo austro/tedesco (Operazione Waffentreu – Onore delle armi) che portò a quella che viene chiamata la disfatta di Caporetto (oggi Kobarit).
Fu lui a Peschiera, l’8 novembre, che con orgoglio nazionale si impose agli inglesi e francesi che volevano la ritirata italiana ben più profonda, fino all’Adige, mostrando scarsa considerazione verso un esercito che fino a quel momento era stato l’unico a combattere soltanto in territorio nemico, contrariamente ai loro che mai occuparono la Germania Guglielmina. Il ripiegamento sull’Adige avrebbe causato la perdita di città come Venezia con tutta la sua capacità produttiva, oltre a costituire un grosso fattore psicologico negativo del quale il Paese non aveva certo necessità.
La posizione degli “alleati” implicava anche scarsa considerazione per l’Italia, cui non era affatto estranea la condotta dei politici italiani che anche allora governavano, “alla giornata”, con inesistente visione strategica a lungo termine, privi di idee veramente valide per l’interesse nazionale e volti unicamente al piccolo, ma per loro importantissimo, interesse personale.
Fu il “pugno sul tavolo” di Vittorio Emanuele III che si impose per l’Italia, non il coraggio dei politici né tanto meno l’ardire dei generali. Non a caso la sua presenza costante al fronte e presso la truppa, gli valse il soprannome di “Re Soldato”. Il coraggio psicologico che inspirò ai combattenti, non fu certo un fattore secondario nel risultato vittorioso del conflitto.
Il rapporto della Monarchia con il fascismo fu sempre conflittuale. E’ pur vero che il Re affidò a Mussolini l’incarico di formare il governo, ma dopo che per ben due volte era stato costituzionalmente offerto e declinato da altrettanti politici che pavidamente si erano rifiutati di guidare il Paese in un periodo di forti disordini sociali. Politici forse non solo paurosi, ma anche incapaci di manifestare il potere statale verso estremisti di varie tendenze, che aspiravano alla rivoluzione anche e soprattutto a quella sovietica. Quando Mussolini, per la necessaria approvazione costituzionale, presentò il suo governo in Parlamento benché disponesse di solamente trentacinque (35!!!) deputati, ebbe una vasta maggioranza.
Dunque la consegna dell’Italia fu colpa del Sovrano, o clamoroso fallimento della democrazia eletta, la quale, al dunque non seppe far altro che ritirarsi sull’Aventino. La sfortuna della democrazia italiana fu che questa volta non apparve un Menenio Agrippa con un convincente apologo. Ma allora era il 494 a.C.!
La più grande colpa attribuita a Vittorio Emanuele III fu quella di aver firmato le leggi razziali nel 1938. Si badi bene, leggi di discriminazione razziale, non di sterminio come nel Terzo Reich tedesco.
In Italia in base allo statuto albertino, allora vigente quale costituzione del Regno e passato dal Regno di Sardegna a quello d’Italia, il re era tenuto a firmare le leggi che il Parlamento gli sottoponeva dopo regolare approvazione secondo il regolamento del Parlamento stesso. Vittorio Emanuele III le respinse tre volte, dopodiché fu costretto, evidentemente suo malgrado, ad apporre la firma quale atto definitivo dell’iter.
Se avesse rifiutato, avrebbe, in un caso, dovuto lasciare il Regno (anzi all’epoca l’Impero) abbandonando l’Italia in toto al fascismo, allora al suo massimo splendore. Ma con ciò sicuramente lasciando che aumentasse l’influenza tedesca e quindi peggiorasse il destino degli ebrei italiani. Come altra ipotesi avrebbe potuto tentare un colpo di stato in violazione della costituzione ed avviare la Nazione ad una guerra civile il cui risultato probabilmente sarebbe stato sfavorevole alla monarchia considerato il generale consenso goduto all’epoca dal P.N.F. e soprattutto da Mussolini. Non vi è dubbio che anche in questa ipotesi, la sorte degli ebrei sarebbe stata peggiore di quanto non lo sia stata fino all’8 settembre del 1943. Va anche aggiunto che, malgrado quelle leggi si dovessero applicare anche nei territori di occupazione italiana, questi furono in realtà fino alla resa italiana, zone di rifugio per quegli ebrei che fuggivano dai territori sotto occupazione tedesca e dalla stessa Francia di Vichy (si ricordi la grande retata di ebrei nell’agosto del 1942). E ciò, nonostante le ripetute insistenze tedesche di avere consegnati gli ebrei rifugiati.
Ma perché l’Italia nel 1938 arrivò alle leggi razziali? Fu solo dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il lunedì 16 marzo 1861, che gli ebrei vennero considerati cittadini italiani a tutti gli effetti ed a loro aperte tutte le attività private e pubbliche. Gli ebrei furono strumentali nell’avvento al potere del P.N.F. e coprivano importanti incarichi in tutti i settori, compreso il partito fascista. Per comprendere il cambio di posizione del regime, è necessario ritornare alla guerra coloniale di conquista dell’Etiopia ed alla condanna dell’Italia da parte dell’inutile Società delle Nazioni.
La Francia fu molto attiva nel condurre una politica anti italiana che portò a detto risultato. Il Regno Unito, pur condannando l’Italia, non ostacolò la guerra italiana consentendo il traffico militare nel Canale di Suez. Il blocco del canale avrebbe impedito all’Italia di condurre la guerra. Fu a seguito della condanna della S.d.N. che la Germania intervenne a favore dell’Italia con aiuti economici contribuendo alla violazione dell’embargo e contemporaneamente sviluppando una intensa propaganda pro se stessa quale amica dell’Italia.
Brevemente, si passò da una posizione del Regno ostile al Terzo Reich, che aveva portato al fallimento dell’annessione dell’Austria nel Reich, ad un supporto della politica espansionista tedesca.
Ne derivò il Patto d’Acciaio che segnò il predominio germanico in Italia con le conseguenze che ben si conoscono ed in una guerra combattuta contro i paesi che sarebbero invece dovuti essere alleati. In definitiva si ripeté quanto avvenuto all’epoca della Triplice Alleanza, ma senza il “ravvedimento” strategico di allora.
Le leggi di discriminazione razziale furono una delle conseguenze del Patto d’Acciaio, poi allargato al Giappone.
Politiche sbagliate del governo portarono ad una situazione di sudditanza strisciante da parte italiana verso la Germania, che indubbiamente avrebbe sostenuto con ogni mezzo un tentativo di rovesciamento del fascismo per evitare le leggi di discriminazione razziale. In definitiva Vittorio Emanuele III scelse il male, ma nelle circostanze il male minore per gli italiani, evitando anche che la discriminazione si trasformasse in sterminio per gli ebrei.
Colui che in qualche maniera ha una posizione di gestione di una nazione, ha il dovere di scegliere, quando non vi è altra soluzione, il danno minore. Così fu per il Re ed Imperatore nel 1938 e negli anni fino al 25 luglio 1943.
Altra accusa che viene mossa a Vittorio Emanuele III è di essere fuggito da Roma lasciando la città priva di istruzioni ed in balia dei tedeschi.
I regnanti del Belgio all’arrivo delle armate tedesche si rifugiarono in Inghilterra, paese straniero. Analogamente fecero quelli dei Paesi Bassi scappando in Inghilterra, sempre paese straniero. Non diversamente avvenne per quelli della Norvegia. Il Regno Unito peraltro aveva predisposto il necessario per il trasferimento in Canada dei suoi regnanti. I polacchi ebbero addirittura due governi in esilio, uno a Londra ed un altro a Mosca e ciò benché U.K. e U.R.S.S. fossero alleati.
Il re d’Italia lasciò Roma ancora sotto controllo italiano per trasferirsi nell’unica parte del territorio italiano libera da nemici. A Brindisi sventolava il tricolore nazionale e lì si trasferì il Governo, Capo dello Stato compreso, ossia il Re.
Nel mese di agosto erano state diramate e consegnate a tutti i comandi delle tre FF.AA., sia in Italia che oltremare, circolari segrete ben circostanziate con le azioni da svolgere “ove l’Italia fosse uscita dal conflitto”. Se esse furono disattese, forse è maggiore responsabilità del caduto regime fascista che fece accedere ai più alti gradi delle FF.AA. ufficiali presumibilmente non all’altezza della situazione o/e di mancata opera di previa informazione e coordinamento da parte del governo con le FF.AA. per quell’eventualità poi verificatasi.
La notizia della “fuga del Re” fu prontamente diffusa da fascisti e tedeschi e prontamente adottata dai politici repubblicani e tale ingiustamente rimase per la vittoria (contestata) della repubblica al referendum del 1946, ancora prima del ritorno dei prigionieri di guerra, cittadini italiani esclusi arbitrariamente dal voto.
Vittorio Emanuele III rimase sul trono dal 1900 al 1946, per quei 46 anni che furono indubbiamente tra i più duri per la Nazione e sicuramente regnò con maggiore dignità di altri regnanti.
Forse è arrivato il tempo di accettare che le spoglie regali possano riposare serenamente in pace nel loro paese natale, dove si conviene.