(di Roberto Falaschi) – Fino alla nausea si è disquisito sulle leggerezze, inadeguatezze e disinteresse generalizzato dell’Italia sul problema sorto con l’India a seguito del sequestro dei due Fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in servizio di protezione sulla nave di bandiera italiana Enrica Lexie.
Se l’imbroglio Marò è ancora in atto, oltre alle non poche responsabilità nazionali vanno ricercate anche le goffaggini del governo del Kerala e dello stato federale indiano.
In primo luogo perché attribuire per definizione la responsabilità del decesso dei due pescatori keralesi alla protezione della Enrica Lexie senza alcuna evidenza, ma solamente perché si trovava “da quelle parti”?
In altro scritto ho evidenziato le “marronate keralesi” nell’avvio dell’inchiesta e nel voler escludere una collaborazione con i Carabinieri nella ricerca dei fatti. Ciò lascia supporre fin dall’inizio della questione una evidente malafede, che altrimenti una ricerca di giustizia avrebbe voluto che qualsiasi collaborazione fosse gradita.
In definitiva gli inquirenti del kerala tanto hanno pasticciato che il governo centrale indiano ha sentito l’obbligo di avocare a sé l’inchiesta, senza poi sapere come uscire dal pantano dove la precedente pessima gestione dell’inchiesta aveva fatto finire la questione, peraltro esasperata da un nazionalismo mal posto.
Quindi l’India non trova nulla di meglio che affidare l’inchiesta alla NIA in base al SUA Act (legge antipirateria) che prevede la pena capitale per coloro che si rendono responsabili di atti di pirateria causando morti.
A questo punto sarebbe indispensabile “insegnare” alle autorità indiane cosa sia la pirateria. Essa infatti si configura quando uno o più privati a titolo personale intraprendono assalti a natanti di qualsiasi bandiera a scopo di lucro. Essi non sono da confondere con i corsari che, pur da privati, assaltano natanti in alto mare allo scopo di danneggiare i commerci di uno o più stati ed a ciò abilitati dalle “lettere o patenti di corsa” rilasciate da uno stato antagonista a quello/i per cui il corsaro è abilitato ad attaccare, che in caso di cattura ha lo status di prigioniero di guerra e non di delinquente.
Appare chiaro che i nostri Fucilieri di Marina non agivano in proprio, ma su invio del loro Stato di appartenenza al fine di tutelare la libera navigazione a chiunque, ivi comprese le navi indiane. Ne consegue che essi agivano anche a favore dell’India che ora pretenderebbe, dopo averli sequestrati per due anni, di processarli quali pirati.
“Cose e pazzi”!
Ma, ancora peggio, non solo non comprendono, o fingono di non comprendere, la funzione dei Fucilieri di Marina, ma pretenderebbero di giudicarli quali uccisori volontari e per interesse proprio di due sconosciuti pescatori, quando tutt’al più si potrebbe considerare, ove ve ne fossero le prove, colpevoli di omicidio involontario. Accusa che comunque cadrebbe in una Corte dato che prima di aprire il fuoco avevano inviato tutti quei segnali previsti in caso di sospetto abbordaggio da pirati.
In un tribunale non reggerebbe neppure un’accusa di eccesso di legittima difesa per gli stessi motivi.
Una domanda che un inquirente deve porsi in un caso come questo è: Perché malgrado i segnali inviati dalla scorta della Enrica Lexie il natante ha continuato ad avanzare mantenendo al contempo un angolo di avvicinamento evidentemente sospetto tale da indurre chi di dovere ad aprire il fuoco?
Devo dire che alla luce di questi elementi sento una profonda pena per il sistema giudiziario, per i governanti e per i mass-media indiani che, anziché mettere in evidenza l’inconsistenza delle prove a carico dei Fucilieri di Marina e chiudere rapidamente la questione, continuano ad impantanarsi sempre di più cercando impossibili modi di incastrarli. Farebbero una più dignitosa figura prosciogliendoli da ogni reato, che poi allo stato è una generica accusa di duplice omicidio.
Il fatto che in ventitré mesi non siano stati in grado di formulare null’altro, dimostra che non hanno assolutamente nulla che possa servire per formularla e che brancolano nel buio accecati da uno spropositato orgoglio nazionale che impedisce loro di ammettere la verità, anche in considerazione che subito dopo “l’incidente” i Fucilieri di Marina hanno inviato un rapporto dei fatti nel quale l’imbarcazione sospetta è descritta come totalmente diversa dalla St. Anthony.
Ho personalmente forti sospetti che i pescatori siano stati vittime di uno degli scontri a fuoco con altri pescatori come avviene frequentemente in quelle acque oppure del fuoco di una motovedetta dello Sry Lanca, ma la dimostrazione di ciò esula da questo scritto.
Se poi per malposto orgoglio nazionale e per motivi politico elettorali gli indiani vogliono persistere nel loro errore è evidente che duecento anni di colonizzazione britannica non sono bastati ad inculcare loro cosa sia lo stato di diritto.
Se si può azzardare un finale, dopo le elezioni in primavera e dopo vari passaggi giudiziari dei quali è arduo ipotizzare l’iter, i due saranno lasciati liberi di rientrare in Italia e la questione si smonterà.
Ora tutto questo oltre a causare un notevole stato di apprensione e di sconsolamento ai Sottufficiali del San Marco Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, è causa di notevoli spese per il contribuente italiano che alla fine della faccenda andrebbe in qualche modo adeguatamente risarcito. Sempre che un nostro governo abbia il coraggio di pretenderlo.
Gli unici a poter stare a testa alta in questo “imbroglio” sono le nostre vittime di una questione mal avviata e peggio gestita, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ai quali va una indiscussa lode.
Caso Marò: quel papocchio italo-indiano
ottobre 2, 2014