(di Clara Salpietro) – Il marò Arturo De Cadilhac, classe 1922, tenente di vascello dell’unità San Marco Divisione Fanteria da Sbarco, ci racconta la seconda guerra mondiale vissuta in prima linea.
Il suo racconto è lucido, schietto, dettagliato. È un fiume in piena, ricorda esattamente nomi, date, luoghi, momenti indimenticabili che ha vissuto in prima persona e accetta gentilmente di farsi intervistare.
Di padre italiano con origini francesi e madre austriaca, De Cadilhac ci parla degli anni in cui ha indossato la divisa militare italiana, di Mussolini, del ventennio fascista, dell’8 settembre e della sua prigionia presso il campo di concentramento di Coltano, allestito dagli Alleati vicino Pisa.
“Sono stato chiamato alle armi – esordisce il marò De Cadilhac – verso la fine del 1942 e poiché già ero all’università, dovevo frequentare il corso allievi ufficiali di complemento che allora si teneva a Canzo, vicino Como. Lì rimasi fino a maggio del ’43, mese in cui ci trasferirono a Cerveteri per il campo estivo, al termine del quale di lì a qualche altro mese avremmo dovuto sostenere gli esami per ottenere il grado di Sottotenente. Dopo l’8 settembre cercai di arruolarmi nella Xª MAS che cominciava a preparare reparti da spedire in Linea, ma non appena saltò fuori che provenivo dal Regio Esercito fui spedito prima ad Orvieto e poi a Modena per completare il corso. Dopo un rovinoso bombardamento alla scuola di Modena, da parte di bombardieri americani, fui spedito a Velo d’Astico e lì ebbi il primo vero battesimo del fuoco purtroppo contro altri italiani anche se comunisti. Ci facemmo le ossa spostandoci su e giù per le Alpi da una località all’altra, facendo e subendo violenze di ogni genere. Il mio desiderio, come del resto quello di migliaia di altri miei camerati, era di raggiungere al più presto il fronte e riscattare l’onore perduto. Il corso Ufficiali finì ed ebbi la nomina. I primi 50 in graduatoria di ogni Corso potevano scegliere di essere accolti nelle seguenti Divisioni: Monterosa Divisione Alpina; Italia Divisione Bersaglieri; Littorio Divisione Granatieri e infine San Marco Divisione Fanteria da Sbarco. Io scelsi quest’ultima, che era perfettamente armata ed addestrata”.
“Poiché l’armamento e l’addestramento delle Divisioni rientrate in Italia era tedesco – prosegue – dovetti fare altri 40 giorni di naja per prendere confidenza sia con le armi che con il regolamento militare tedesco. Fu un periodo durissimo e compresi qual era il segreto dell’efficienza del soldato germanico: non si era più uomini ma macchine da guerra, con il compito di uccidere e non farsi uccidere. Sopportai con buona volontà questo periodo e a conclusione finalmente potei raggiungere la Divisione San Marco, dove mi fu assegnato il compito di Ufficiale di Collegamento con i reparti tedeschi. Al mio timido tentativo di farmi aggregare al 2° Battaglione in partenza per il fronte, il Colonnello che comandava il Reggimento bonariamente mi consolò con queste parole: ‘Calma calma giovanotto, tutti noi avremmo il tempo di farci ammazzare sulla Linea Gotica. Intanto Lei cerchi di salvarsi la pelle dai partigiani e ne accoppi più che può’”.
Dott. De Cadilhac dove eravate posizionati?
La nostra Divisione, ad esclusione dei battaglioni presenti sulla Linea Gotica, era schierata in posizione di difesa in Liguria, dopo che gli Alleati erano sbarcati nella Francia Meridionale, e abbiamo avuto molto da fare con le bande partigiane. Io ho sempre fatto una netta distinzione tra queste bande: c’erano quelle costituite da monarchici, liberali ecc…che io definivo dei “Patrioti”, erano nostri avversari ma si battevano per l’Italia, avevano segni di riconoscimento visibili a distanza, disciplina, comportamenti leali, con loro ci siamo battuti ma sempre rispettati. Tra queste bande ricordo quella di “Mauri”, “Sogno” ecc.. C’erano poi le bande che definivo dei “partigiani” che non si battevano per il nostro Paese, ma essendo di parte “partigiana” avevano un solo ideale: Stalin e Tito ed erano costituite da una accozzaglia di farabutti. Li odiavo due volte, primo perchè erano miei avversari secondo perchè erano rossi e non rispettavano nessuna regola. Torturavano i prigionieri prima di ucciderli, ne abbiamo trovati alcuni con al posto degli occhi i distintivi del San Marco”.
Chi era Mussolini per lei?
Sono nato nel 1922 anno in cui Mussolini assunse il potere come Primo Ministro, quindi nelle scuole mi fu inculcato il principio che tutto andava bene, anzi benissimo. Inizialmente Mussolini per me era il Dio in terra, poi ho avuto delle critiche nei suoi confronti, ma per me era sempre un grande uomo con una personalità fuori dal comune; insomma un uomo con un sacco di pregi ma anche con alcuni difetti. In fondo era un essere umano e come tale non poteva esserne privo. Tuttavia non ho mai pensato di voltargli le spalle: troppe cose buone aveva fatto e quindi tutto o quasi tutto gli si poteva perdonare.
Come si viveva durante il Fascismo?
Per me il Fascismo si identificava con l’amore di Patria, con il desiderio di cancellare una volta per tutte il marchio di “mandolinisti”, “maccaroni” ecc con il quale eravamo etichettati all’estero. In quel periodo oltre che sull’amor di Patria, si insisteva sull’onestà, il senso dell’onore, tutte cose che credo vengano insegnate ai bambini di tutti i Paesi del Mondo. Per noi ragazzini (almeno per me) l’Opera nazionale balilla (ONB) era il non plus ultra: le gite, i saggi ginnici, i campeggi, le cerimonie ufficiali erano tutte cose che ci avvincevano. Forse i genitori erano un po’ meno contenti perché con la scusa dell’ONB a casa ci stavamo poco.
Le cose in Italia prima del fascismo non andavano troppo bene e questo non è ben documentato dalla Storia, dopo sono cominciate a marciare meglio. Non sto ad elencare tutti i provvedimenti che durante il Ventennio furono presi a favore del popolo, tra cui pensioni, liquidazione di fine rapporto di lavoro, orari di lavoro, maternità ed infanzia, assistenza medica, colonie marine e montane per i figli dei lavoratori, per non parlare delle opere pubbliche cioè paludi pontine, fondazione di nuove città, acquedotti, strade, costruzione a non finire di edifici pubblici. Fu in quel periodo che si iniziarono a costruire edifici nello stile mussoliniano, che può piacere oppure no, ma sta a testimoniare quanto fu fatto in quel campo nel ventennio.
Durante l’epoca fascista è vero che non c’era la libertà, c’era l’OVRA una specie di polizia segreta che cercava di ficcare il naso negli affari privati degli italiani e della cui esistenza venni a sapere solo dopo la fine della guerra. Oggi siamo forse meno sorvegliati di quello che eravamo ieri? Con tutte le diavolerie elettroniche che ci sono oggi, non siamo forse vivisezionati in barba a quella buffonata che si chiama Privacy?
Per chi si faceva gli affari suoi, lavorava, osservava le leggi, non dava fastidio al Regime, posso in coscienza dire che non aveva nessuna noia. La libertà di parola e di pensiero erano negate ad una esigua minoranza, cui va il mio rispetto perché avevano il coraggio delle loro azioni, ma le loro voci si perdevano nel clamore dei sostenitori del regime che erano la quasi totalità. Negli anni 1936-1937 l’adesione al fascismo nel Paese era quasi totale; i pochi veri antifascisti o erano all’estero o si trovavano al confino stipendiati dallo Stato.
Come ricorda l’8 settembre?
L’8 settembre fu per me, come del resto per molti miei colleghi, un trauma che ci lasciò come intontiti dopo aver ascoltato l’ipocrita ed irresponsabile comunicato di quell’essere immondo che era Badoglio: restammo ammutoliti e distrutti dal dolore e dalla vergogna. Se nel comunicato fosse stato detto chiaramente che avveniva un rovesciamento del fronte, anche se la cosa non ci fosse piaciuta, “ob collo torto” avremmo obbedito all’ordine, sempre per il solito principio “La mia Patria innanzitutto”, ma così senza ordini, lasciati allo sbando, era lo sfacelo, il caos più completo. I soliti imbecilli esultavano perché secondo loro per noi la guerra era finita, cosa importava a loro che il nostro onore veniva calpestato e gettato nel fango. Inutilmente si cercava di spiegare loro che i tedeschi se ne sarebbero altamente fregati di quello che noi avevamo dichiarato, ci avrebbero allegramente occupati ed il nostro Paese sarebbe stato il campo di battaglia sul quale i due avversari si sarebbero misurati, noi non contando un bel nulla. Il reparto rimase compatto fino al 15 settembre. Il 16 settembre ero a casa. Verso il 20 dello stesso mese mi presentai ad un Centro di Raccolta per Volontari, la Repubblica Sociale Italiana non era ancora nata, Mussolini non si sapeva che fine avesse fatto, una cosa sola era certa mi arruolavo sapendo di puntare su una ruota perdente, però mi convincevo sempre più che una guerra si può perdere, ma non l’onore. Non bisogna dimenticare che il 90% degli Armati della Repubblica Sociale Italiana era rappresentato da volontari, i quali anche se capivano che eravamo arrivati alla frutta non mollavano.
Può raccontare del periodo in cui è stato prigioniero di guerra nel campo di Coltano, allestito dagli americani?
Dopo la resa, depositate le armi a Valmadonna e regolarmente inquadrati, abbiamo raggiunto la Cittadella di Alessandria, da qui fummo trasferiti come prigionieri di guerra a mezzo ferrovia a Genova, dopo un giorno trascorso nel campo di calcio “Marassi” a mezzo di camion triassi fummo trasferiti prima nel POW 339 di San Rossore successivamente nel POW 337 di Coltano. Durante tutti questi trasferimenti siamo stati trattati bene, certo come si tratta un prigioniero, ma senza maltrattamenti e con ragionevoli forniture di viveri. Di quel periodo mi sono rimaste impresse le nottate passate all’addiaccio, le file e le interminabili attese per adempiere le cose più sceme ed inutili imposte dalla onnipresente burocrazia che imperversava in tutti gli eserciti del mondo. Essere prigioniero o di guerra o di qualsiasi altro tipo non è una cosa piacevole. Il vitto anche se buono era scarso e ci fu detto che non era malanimo nei nostri confronti bensì che non ci si aspettava una così grande massa di militari. In cambio però ricevemmo carta igienica in quantità, saponette, spazzolini da denti, dentifrici e non ricordo più quante altre cose. Il guaio principale almeno per i miei compagni, di sventura, era la mancanza del pane. Io avendo avuto una madre austriaca ero abituato a non mangiarne molto e quindi ne sentivo molto meno la mancanza. Nel campo la disciplina era quella militare: sveglia alle 6 di mattina, doccia, un po’ di ginnastica, poi pulizia del campo e su questo i nostri carcerieri erano rigidissimi, oltre l’infermeria era stato anche allestito uno studio dentistico. In un secondo tempo venimmo riforniti di palloni da calcio e fu approntato un apposito campo, mazze da baseball, racchette da tennis, guantoni per la boxe e non ricordo più quanti altri aggeggi, questo perché il comandante del Campo asseriva che un uomo che non fa nulla fa fesserie, ed aveva perfettamente ragione. Poco dopo il Campo passò sotto la direzione dell’esercito italiano e fu con grande commozione che vedemmo calare dal pennone la bandiera Americana e salire quella Tricolore, la quale fu accolta con grida di gioia e di giubilo, tanto che il nuovo Comandante, da noi definito “badogliano”, ci elogiò per questo spirito di amor di Patria. La sveglia venne abolita ed ognuno si alzava quando gli faceva più comodo. Il vitto, sempre scarso, era più mediterraneo, con molta verdura, minestroni in cui galleggiavano miseri pezzetti di pasta e finalmente pagnotte stantie da dividersi in otto. Dopo dieci giorni eravamo in pieno casino italico. Poi la situazione cominciò a degenerare, furono aperti dei varchi non per far fuggire i prigionieri, ma per farvi entrare i borsari neri e allegre donnine perché di denaro ce n’era in abbondanza. Con le prime piogge ed i primi freddi le cose si complicarono tanto che si cominciò a parlare di sommosse e fughe in massa. Dopo pochi giorni mi sono trovato con uno sfilatino di pane sotto il braccio ed un foglio che mi autorizzava a prendere ogni mezzo che mi portasse a casa, mi recai al Distretto Militare e fui congedato.
Cosa avvenne dopo?
Mio padre non volle che mi cercassi un lavoro, voleva che mi laureassi e così mi buttai nello studio dando tutti gli esami possibili e prendendo voti bassissimi pur di finire presto. Molte carriere ci erano precluse, niente carriera militare, niente carriera diplomatica, niente posti ministeriali e così via, solo le Banche ci accettavano. In quel momento si stavano restaurando rapporti d’affari con la Germania e così, grazie al fatto che ero bilingue, fui assunto da una banca. Anche nella vita civile ho sempre cercato di fare il mio dovere e posso dire con orgoglio che tutti i miei commilitoni, con i quali sono venuto a contatto, dopo i primi difficili inizi si sono affermati nel loro campo, nessuno ha sgarrato.
È rimasto in contatto con gli altri commilitoni?
Noi reduci della Divisione Fanti di Marina San Marco della Repubblica Sociale Italiana nel 1952 abbiamo creato una nostra associazione in cui ancora oggi ci ritroviamo. Inoltre facciamo anche parte del “Gruppo Nazionale Leone San Marco – Marina Militare” che riunisce, oltre ai marò del dopoguerra, tutti quelli che combatterono, al Nord come al Sud, sotto le insegne del Leone Alato prima e dopo l’8 settembre 1943. Combatterono tutti con profondo amore per il loro Paese. Analogamente sono confluiti in associazioni unitarie anche i bersaglieri ed i paracadutisti.
Appartengono ad un’altra Italia, un’Italia in cui si può, anzi si deve, porre qualche domanda su che cosa avvenne in quei lontani tempi e parlarne con i superstiti, cercare di capire e far capire la capacità di sopportare sacrifici, sofferenze e rischi mortali che vennero affrontati dalle due parti, cioè dai repubblichini e dai partigiani, ma anche comprendere perché avvenne una così grave frattura. Sessant’anni sono molti. Quella frattura in parte si è ricomposta, non per merito dei politici, ma dal basso, per naturale risultato del trascorrere del tempo e di confronti condotti sulla base del reciproco rispetto, guadagnato con il comportamento quotidiano durante e dopo la guerra.
La frattura fra reduci delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana e partigiani è tutt’ora aperta. Riuscirà la nuova generazione a ricomporla in una superiore unità del Paese? Auguriamocelo, anche se sarà difficile finché sentiremo parlare di parte sbagliata e male assoluto, invece di giudicare ognuno per le cose fatte durante e subito dopo quella tragica guerra civile. Sarebbe necessaria una volontà politica capace di riunire su un comune progetto per l’Italia quanti, indipendentemente dalle posizioni del passato, hanno a cuore gli interessi del Paese in cui sono nati. Temo che questo resti un pio desiderio fin quando nel nostro Paese saranno presenti una cinquantina di partiti.