«Ero straniero e mi avete accolto. In verità vi dico: ogni volta che l’avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me» (Matteo, XXV, 31-36).
– di Tindaro Gatani –
Nel corso del XVI e XVII secolo, di fronte alle grandi scoperte geografiche, la posizione dell’Europa si andava facendo sempre più marginale rispetto al resto del Mondo. Persa la centralità geografica, gli europei cercarono con ogni mezzo di conquistare una centralità politica, avviando vasti programmi di colonizzazione. L’eurocentrismo comportò la presentazione dei paesi extraeuropei secondo stereotipi e luoghi comuni e trattandoli secondo categorie tipiche della storia europea.
Si cercò insomma di imporre nel resto del Mondo la cultura europea, partendo dal presupposto della superiorità intellettuale dei bianchi europei rispetto a tutti gli altri. Con il passare dei secoli, anche gli europei hanno tratto tuttavia grandi vantaggi dal contatto e dagli scambi con i popoli degli altri continenti. La grande mobilità dell’epoca moderna sta portando a meno isolamento, più movimento, più migrazioni, più incroci, anche tra popolazioni lontane. E se ci sono solo vantaggi a livello biologico dalla mescolanza di persone di origini diverse, anche la cultura europea, libera dalla pretesa di essere superiore, può arricchirsi sempre più con gli scambi e gli apporti delle culture più diverse.
Nella nuova Europa sembra ormai definitivamente sconfitta la mentalità arretrata che faceva pensare all’unificazione del continente come ad una sommatoria massificante di popoli e culture da omogeneizzare. Sempre più si sta facendo invece strada l’idea contraria e cioè quella di potenziare le diversità, perché il naturale riconoscimento della propria identità è il presupposto all’unità.
Il futuro dell’Europa e del mondo intero è nella mescolanza armoniosa di genti, di esperienze, di culture diverse. A patto, però, come si diceva, che ognuno sia cosciente della propria identità e delle proprie radici culturali. In questi ultimi tempi, i partiti senofobi stanno alzando la cresta un po’ in tutta Europa, attirando i consensi di quanti per calcoli politici o semplicemente per egoismo si sentono minacciati dall’arrivo di nuovi profughi ed immigrati extracomunitari. L’intolleranza nazionalista trova un buon alleato nel sentimento senofobo di gruppi estremisti. In Italia non manca chi tenta di portare addirittura il problema dal piano politico e sociale a quello religioso.
Il migliore alleato dei razzisti e dei senofobi resta comunque l’indifferenza della gente che evita, per ignoranza o per quieto vivere, di prendere posizione. Per ironia della sorte, gli senofobi non sono razzisti fino a quando quelli che loro considerano diversi, inferiori, stranieri dai quali difendersi, essendo ridotti in stato di soggezione e quindi di schiavitù, sono impossibilitati a nuocere all’ideale del loro ordine sociale.
Esempio ne sia che greci e romani, ma anche le società medievali, in questo senso non erano razzisti e praticavano, infatti, ben volentieri anche la tratta dei bianchi. I diversi fanno paura solo quando cercano di affrancarsi dalla soggezione e vogliono essere liberi di pensare, di studiare, di lottare per i loro diritti, di competere su una posizione di parità con le popolazioni autoctone, di partecipare alla vita politica locale come elettori ed anche come eletti.
Diritti che anche le democrazie più avanzate sono disposte a concedere al patto non di una semplice integrazione, ma di una totale assimilazione per la quale si diventa cittadini del paese ospitante. Si accetta insomma lo straniero se rinuncia alla sua diversità di straniero.
Quello che si teme di più è infatti non la concessione di diritti per rendere gli stranieri uguali ai locali, ma il riallacciamento alla loro cultura di origine, alle loro tradizioni. Si teme insomma l’eventuale affiorare della loro essenza e della loro natura di uomini diversi e nello stesso tempo uguali. Si teme cioè, per dirlo con un brutto vocabolo coniato in Svizzera alcuni decenni fa, l’inforestieramento degli usi e de costumi locali, che verrebbero soffocati con la sovrapposizione di una cultura straniera.
Un pericolo scongiurato invece dall’assimilazione, che, come recita il Vocabolario Illustrato di G. Devoto e G.C. Oli, è un «processo spontaneo per cui, all’interno di uno stesso Paese, una minoranza nazionale fa proprie, a poco a poco, la lingua, la cultura, la religione della maggioranza, fino ad amalgamarsi con questa».
Lo sanno bene alcuni governi che solo cancellando la cultura e l’identità di un popolo si riesce a dominarlo ed a sconfiggerne le aspirazioni di indipendenza. Perché, come canta Ignazio Buttitta: «Ad un popolo mettete le catene, spogliatelo, tappategli la bocca, ed è ancora libero. / Levategli il lavoro, il passaporto, il letto dove dorme, la tavola dove mangia, ed è ancora ricco. / Un popolo diventa povero e servo, quando gli rubano la lingua ereditata dai padri, quando la perde per sempre. /Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole».
Certo il concetto di straniero ha subito anch’esso con il passare del tempo una sua propria particolare evoluzione: una volta era straniero l’abitante del villaggio che stava al di là della montagna oppure sulla riva opposta dello stesso fiume. I genovesi erano stranieri a Venezia; i romani a Firenze; quelli di Basilea a Zurigo. Per secoli furono stranieri i francesi in Italia; gli italiani in Germania, e così via.
Da qualche decennio a questa parte, in Europa ci sono stranieri e stranieri, tutti comunque extracomunitari. Ma anche in questo caso ci sono stranieri di serie A e di serie B. Per cui un sudamericano è meno straniero di un nero dell’Africa, un ucraino di un pakistano musulmano. Il colore della pelle e la religione giocano ancora un ruolo importante.
Alle origini della civiltà un unico termine esprimeva il triplice concetto di straniero-nemico-ospite. Lo stesso quadro linguistico sta a confermare — come annota Emile Benveniste nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee — due massime opposte: «Insomma le nozioni di nemico, di straniero, di ospite, che per noi formano tre entità distinte — semantiche e giuridiche — presentano strette connessioni nelle lingue indoeuropee antiche», come il latino ed il greco: «All’uomo libero, nato nel gruppo, si oppone lo straniero, cioè il nemico (lat. hostis), suscettibile di diventare ospite (lat. hospes). Si può capire tutto questo partendo dall’idea che lo straniero è necessariamente un nemico, e, correlativamente, che il nemico è necessariamente uno straniero…».
«Lo straniero — annota G. Stählin alla voce Xénos nel Grande lessico del Nuovo Testamento — e l’ambiente in cui egli vive vanno in tensione vicendevole; lo straniero, in quanto uomo di altra origine, di natura diversa e impenetrabile, fa l’impressione di un essere strano e misterioso che incute paura. Ma anche l’ambiente, per lui strano e diverso, fa allo straniero l’impressione di un’estraneità opprimente e minacciosa. Così sorge un timore vicendevole».
Stählin continua, rilevando che «poi l’uomo trovò un modo migliore, sorprendente, per dominare lo straniero ostile, cioè l’amicizia. Forse il timore animistico fu talvolta il primo movente del nobile costume dell’amicizia ospitale che si riscontra in molti popoli primitivi». È in tal modo che lo straniero passa dalla condizione di animale braccato a quella di essere umano tutelato dalla legge e dalla religione.
Si ritiene questo passaggio come il segno e l’itinerario del procedere della civiltà. In realtà l’esperienza ci insegna che, nel corso della storia, le civiltà hanno spesso dimenticato di essere tali, oppure si sono rese temporaneamente latitanti. Inoltre va precisato che se la consapevolezza dell’amicizia, come sentimento di reciproca accettazione, può essere ritenuto un antidoto alla Senofobia (sentimento di cui gli antichi non erano completamente scevri) essa non basta più a contrapporsi al razzismo che, in modo sistematico, inizia a manifestarsi attorno al Settecento con l’affermarsi delle teorie della razza e che andranno via via sviluppandosi durante l’Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento.
Le basi pseudo scientifiche del razzismo furono teorizzate soltanto a partire dal XVIII secolo anche con il contributo di Carlo von Linné (Carlo Linneo, 1707-1778). Con la sua nomenclatura binaria, il celebre naturalista svedese classificava infatti le razze umane:
1) Europaeus albus: ingegnoso, inventivo, bianco;
2) Americanus rubescens: soddisfatto del proprio destino, amante della libertà, irascibile;
3) Asiaticus luridus: orgoglioso, avaro, giallastro, melanconico;
4) Afer niger: astuto, pigro, negligente, nero.
La paura dello straniero è il tema di una delle cinque conversazioni sulle paure di fine millennio trattate da Georges Duby (1919-1996). Per lo storico francese, una paura tipicamente contemporanea è la paura dell’altro, di quelli che se ne stanno ammassati alle nostre frontiere.
Alla domanda: «Quando oggi si parla di paura dell’altro, ci si riferisce anche al timore di una perdita di identità culturale. È fondato, in questo caso, un paragone con il Medioevo?», Duby risponde: «Non più di tanto. L’Europa dell’anno mille, l’Europa in espansione che si lanciava all’assalto del Mondo, veniva a essere in una posizione di inferiorità rispetto alle grandi civiltà del sud, la bizantina e l’islamica. Piuttosto che doversi difendere dalla contaminazione di culture esterne, l’Europa medievale aveva di che nutrirsi delle culture limitrofe, incomparabilmente più ricche della sua. Lo sviluppo intellettuale e scientifico europeo del secolo XII si basa sopra quello che i conquistatori cristiani trovarono nelle biblioteche arabe di Toledo e di Palermo».