(di Maurizio Bekar*) – Non è un segnale, ma un grido d’allarme, e a pieni polmoni. Il rapporto di Lsdi (Libertà di stampa diritto all’informazione) sulla condizione della professione giornalistica in Italia, elaborato a partire dai dati ufficiali, fotografa di anno in anno una situazione sempre più drammatica. E oramai insostenibile per la maggior parte della categoria.
Dai dati emerge infatti la crisi del settore e dei capisaldi tradizionali che lo reggevano (contratto, tutele, carriera, status, pensione…). E la costante crescita dei lavoratori autonomi, divenuti oggi il 60% dei giornalisti attivi, spesso sottopagati sotto la soglia dell’autosufficienza economica. Ma quando la retribuzione media degli autonomi varia dai 9.000 al 12.800 euro lordi l’anno (con spese, contributi e rischi a carico), e il 49% di questi ha un reddito inferiore ai 5.000 euro, questa oramai non è solo una condizione eticamente inaccettabile, o un’emergenza, ma un elemento deflagrante per la tenuta della professione.
Il rapporto di Lsdi evidenzia vari elementi critici: troppi giornalisti iscritti all’Ordine (di cui meno della metà risulta attiva), contrazione degli organici delle redazioni, caduta delle sicurezze lavorative e pensionistiche anche per i tradizionali “garantiti” (cioè i contrattualizzati a tempo indeterminato). Ma l’elemento più deflagrante, oggi e in prospettiva, credo sia quello del lavoro autonomo (e anche quello “fittiziamente autonomo”, in riferimento alle tante posizioni che dovrebbero invece venir più correttamente inquadrate come dipendenti).
È infatti intuitivo che se il 60% dei giornalisti attivi oggi costa agli editori infinitamente meno di un dipendente (dalle 5 alle 7 volte, rispetto alle sole retribuzioni lorde, e non ai costi aziendali complessivi di un dipendente), unitamente ai vantaggi dell’esternalizzazione dei costi di produzione e della possibilità di avere “mano libera” nei rapporti con i collaboratori, la strada per l’editore che punti solo a massimizzare i profitti è già chiaramente tracciata: il destino sarebbe quello dell’ulteriore contrazione delle redazioni stabili e degli assunti, con il parallelo aumento del lavoro autonomo sottopagato e senza diritti.
Che tutto ciò sia un danno per gli autonomi è evidente. Ma la crescita del lavoro precarizzato e sottopagato è una minaccia anche per i contrattualizzati o aspiranti tali. Che, come già avviene, possono vedersi costretti dopo una crisi aziendale o la perdita del lavoro a riconvertirsi in freelance, in un mercato drogato dalla manodopera a basso costo e fortemente ricattabile per l’urgenza economica.
È però anche evidente che il lavoro precarizzato e sottopagato, oltre che alla disperazione di chi lo subisce, non porta alla prospettiva di una pensione congrua, ma neppure ad apporti economici significativi per la stabilità degli enti di categoria (Inpgi e Casagit).
Per queste ragioni è necessario che il sindacato (in tutte le sue articolazioni, anche territoriali ed aziendali) in ogni rinnovo contrattuale e vertenza tratti con forza e in termini unitari in rappresentanza di tutti i lavoratori: contrattualizzati e collaboratori esterni. Partendo dal presupposto che il sistema dell’informazione è oramai formato in media per il 60% da collaboratori. E che, se non si riesce a trattare e imporre anche con la forza organizzata dei contrattualizzati tutele, diritti e retribuzioni congrue per gli esterni, alla fine le strutture sindacali si ridurranno a rappresentare di fatto solo i dipendenti, cioè solo il 40% del reale circuito produttivo, una percentuale oltretutto in calo.
Con danni per i collaboratori, che sempre meno si potranno sentire rappresentati dal sindacato, e per la tenuta complessiva degli enti di categoria. Una chiosa a questo punto è doverosa: è innegabile che le tendenze del mercato del lavoro vanno verso l’aumento del lavoro autonomo e alla contrazione di quello dipendente a tempo indeterminato.
Senza volere rinunciare al corretto inquadramento dei rapporti di lavoro (puntando cioè al riconoscimento di posizioni da dipendente, ove ne sussistano le condizioni), è però altrettanto necessario non avere solo questo orizzonte, ma anche strategie flessibili, realiste e inclusive verso gli autonomi, al fine di “non lasciare nessuno indietro e senza tutele”. E quindi indispensabile una battaglia per l’equo compenso degli autonomi (sia ai sensi della legge 233/2012 in materia, sia grazie ad accordi aziendali e tra le parti sociali).
Un equo compenso che non può però essere solo caritativo e “ragionevole” (per gli editori), ma che tenga conto “della coerenza” (ovviamente quantificata in proporzione) con i trattamenti previsti per i dipendenti. Cioè esattamente quanto prevede la legge 233/2012 sull’equo compenso; e come analogamente prevede la riforma Fornero del mercato del lavoro per i trattamenti dei co.co.pro.
Ciò in coerenza con una tesi da sempre sostenuta dal movimento sindacale, e cioè che “a uguale lavoro, uguale paga”, e che pertanto il lavoro autonomo non può costare meno di quello dipendente. Anche perché un lavoro autonomo più economico porterebbe ineluttabilmente alla progressiva diminuzione di quello dipendente, e alla conseguente perdita di peso e ruolo del contratto collettivo di categoria, con tutte le sue garanzie e tutele. In questo scenario di crescente emergenza un ruolo rilevante lo ricopre anche l’Ordine.
Di cui da tempo si parla della necessità di una profonda riforma. Senza entrare qui nel merito delle varie proposte ed aspetti tecnici, o anche di tesi abolizioniste, credo però che almeno un’idea-guida dovrebbe unire tutti, e trascinarsi poi dietro il resto. E cioè che l’Ordine dovrebbe rappresentare tutti quelli che esercitano effettivamente la professione, anche solo saltuariamente, ma in forma retribuita e con il pagamento dei contributi.
Altrimenti si è di fronte a un hobby, a del volontariato, o all’espressione del proprio pensiero, ma non certo a una professione, che deve produrre un reddito. In questo senso, rispetto al dato abnorme dei circa 112.000 iscritti all’Ordine, di cui solo 47.000 attivi e circa 50.000 che non versano alcun contributo all’Inpgi (e che quindi si suppone non esercitino alcuna attività) andrebbe fatta una radicale riforma, per ripulire dagli albi da chi non esercita attività retribuita, con il connesso pagamento dei contributi.
L’Ordine dovrebbe cioè rispecchiare e rappresentare chi la professione la svolge effettivamente, riscontrando questo dato dalla dichiarazione dei redditi e non solo dal versamento annuale della quota d’iscrizione.
Il tutto, a scanso di equivoci, affrontando parallelamente la questione delle migliaia di collaboratori sottopagati, per i quali una pura ammissione all’Ordine “per censo” si risolverebbe di fatto in una loro ulteriore ed ingiusta penalizzazione. Quasi che la responsabilità delle sottoretribuzioni gravitassero solo sulle loro spalle e scelte.
Per contro andrebbe perseguito con rigore chi esercita attività giornalistica senza essere iscritto all’Ordine e in regola con i versamenti Inpgi. E anche questa sarebbe una forma di tutela per migliaia di autonomi sottopagati, che oggi si trovano a fronteggiare la concorrenza di chi, campando primariamente di altre attività, può anche accettare condizioni che un professionista, che deve ricavarne un reddito e campare, non accetterebbe mai.
Credo perciò che sia urgente approfondire una riflessione, e non solo teorica, su quella chiave di volta del circuito produttivo giornalistico che oggi è il lavoro autonomo. Che non può più essere un sinonimo di “lavoro precario e senza diritti”; né una variabile dipendente del lavoro contrattualizzato o la prima valvola di sfogo delle crisi aziendali.
In questo senso il rapporto di Lsdi è un prezioso strumento di lavoro. Dunque usiamolo, facendo seguire all’analisi dei dati le buone pratiche. E facendo ciascuno di noi la propria parte.
*Coordinatore della Commissione nazionale lavoro autonomo Fnsi, vicesegretario Assostampa Fvg, consigliere nazionale Fnsi